Laboratorio Donnae, Roma 11/12 ottobre 2014, restituzione di Alessandra Chiricosta
Pina ha definito questo appuntamento del Laboratorio Donnae come “una svolta”. E la svolta, per la canna di bambù, è il movimento del ritorno, quello in cui afferma se stessa con tutta la forza del vento. “Il ritorno è il movimento del Dao” recita Lao Zi. Riflettendo su ciò che si è detto, fatto, esperito e vissuto a tanti livelli in quei due giorni, mi viene da pensare che nominare le cose non sia altro che accettarne l’esistenza, mettersi nella scia della corrente che stanno mettendo in atto. Le donne che ho incontrato sono già, e da tempo, canne di bambù. Forse c’era bisogno solo di dirselo, come ha osservato giustamente Tristana, per iniziare il movimento del ritorno. Perché’ tutto ciò sta già avvenendo.
Il concetto di “femminista-come-la-canna-di-bambù”’ è stato recepito chiaramente, ben accolto e rilanciato da tutte. Lo interpreto come conferma di ciò che ho scritto all’inizio. Si sono trovati vari modi di declinare questa idea, questa prassi. Le immagini, dice bene Pina, sono modi per comunicare che trascendono la divisione tra teoria e azione. Agiscono direttamente, possono guidare un processo di concettualizzazione o un’azione politica. La canna di bambù, la sua relazione con la tempesta, ci ha dato modo di riflettere su che tipo di forza abbiamo a disposizione, che tipo di forza abbiamo usato o usiamo. E quale non ci interessi usare.
Parto da me. In primis, non sono una quercia. E non solo perché sono “alta” 1,60 cm. Non solo perché’ non ho muscoli sufficienti. Non solo perché’ come appartenente ad un genere “secondario”, non sono ammessa nella regalità del simbolo della quercia. Ma proprio perché’ non mi interessa esserlo. Da femminista, posso ben dire, la mia forza non è di tipo narcisista. Non si bea di se stessa, di ergersi dritta, incurante delle modificazioni che incorrono attorno a se’. Se soffia la tempesta, la mia volontà è di sopravviverle, di trovare modi di flettermi, senza spezzarmi, pronta a ritornare in piedi non appena la furia si sia placata. Perché’ nessuna tempesta dura in eterno. E, soprattutto, non punto al martirio, all’iscrizione al novero dei “begli eroi” che muoiono puri. Puri e sconfitti.
Come ben espresso da Martha Nussbaum, la “purezza” è un concetto pericoloso. Indica, sovente, paura del contagio, e quindi del contatto. Punta all’irrealtà di un mondo senza contaminazione, con-fusione, in cui ciascuna cosa rimanga ben distinta, immobile e separata. Insomma, un mondo di cadaveri congelati. Non è il mondo in cui vivo io, in cui viviamo noi. Non è il modo/mondo in cui voglio vivere. Da guerriera, voglio vincere, perché’ ne va della mia vita, e quella di coloro che amo. Da guerriera, da femminista, da donna, mi sporco le mani.
L’immagine della canna di bambù e il tipo di forza che evoca sono ampiamente utilizzate nell’estetica delle arti di combattimento dell’Asia Orientale e del Sudest Asiatico. Contesti, questi, in cui un immagine “forte” viene fatta lavorare a più livelli. Non si tratta solo di metafore, ma di comprendere sinesteticamente, eticamente, intellettualmente dinamiche e concetti, trasformandoli subito in prassi, in corpo. In pratica, non si parla tanto di progettualità schematiche e fisse, visto che il terreno di battaglia è sempre impervio e imprevedibile, ma di come fare per esercitare al meglio la propria forza in qualunque contesto, puntando alla vittoria. Le riflessioni che seguono, dunque, ripeteranno questa modalità, che ormai è per me la più sincera. La descrizione di un paesaggio, in cui ciascuna si possa trovare, a modo proprio e insieme. Questo il contributo che mi sento di dare
Il boschetto di bambù diviene una foresta. Se una singola canna di bambù resiste anche alla tempesta più travolgente, ritornando carica di forza, quanta forza può sprigionare un bosco di bambù? Direi la forza di mille tempeste. Mi ha sempre meravigliato l’ordine che regna in un boschetto di bambù. Le singole canne crescono vicine, vicinissime, ma non si soffocano reciprocamente. Si piegano all’unisono, ma ciascuna a modo suo. C’è una forma di “intelligenza vegetale” che fa si che non ci sia bisogno di un cervello centrale, ma dell’essere ciascuna autenticamente…una canna di bambù in un boschetto di canne di bambù. Il bambù è invasivo. Si radica nel territorio e inizia a diffondersi, canna dopo canna, occupando tutti gli spazi disponibili. Il boschetto cresce, in altezza, in larghezza. Diviene fitto, impenetrabile. Queste riflessioni mi sembrano particolarmente pertinenti nella ricerca di una forma di politica delle donne che prenda ispirazione dal bambù. Da quando sono tornata in Italia, ho sentito l’esigenza di “rimettere radici” nella mia terra. Per farlo, ho dovuto capire, sentire cosa, quale fosse la mia terra. Ho scoperto che e’ piena di boschetti di bambù. Proprio laddove non ce lo si sarebbe mai aspettato. Proprio negli spazi, nei luoghi “marginali”, il bambù “poco esigente, che si adatta a qualunque terreno” (da definizione botanica) ha attecchito e si è esteso. Ritengo che questa capacità di vivere nel territorio, trasformandolo, sia il tratto più importante, la cifra di una strategia politica forte. Le piante non hanno un sistema nervoso centrale. Ma agiscono “come se” l’avessero. Il terreno è ciò che permette alla pianta di vivere. E la pianta, vivendo, trasforma il territorio. Non credo sia saggio pensare a politiche comuni pensate dall’alto. E’ dai singoli contesti che occorre ripartire – e in cui occorre rimanere, direi. Rimanere, facendo, però, muovere le proprie “spore”. Sembra paradossale, ma stanzialità e nomadismo non sono due termini contrastanti. Non se ritorniamo ad una visione “radicale” – è proprio il caso di dirlo – di essi. Le piante non sono immobili, al contrario. Crescono in altezza e in larghezza. Radici e fronde avanzano nel terreno e, nel contempo, nel cielo. Inoltre, lanciano i propri “semi”, i propri messaggi fino a distanze inimmaginabili. Magari un seme viene mangiato da un uccello, digerito e “depositato” a kilometri di distanza. Essendo radicate, ci spostiamo in tutto il mondo. Mettere in comunicazione analisi e prassi, riflessioni e pratiche che possano essere riadattate, innestate in altri territori. Ma il territorio non si abbandona. Sradicamento significa morte. Chiederei a ciascuna di farsi giardiniera del proprio boschetto, pensandolo però come una foresta potenziale. Ogni terreno ha la propria specificità, che solo chi lo abita, chi lo ama può conoscere e interpretare. Ma se si vuole pensare in grande – ed è quello che stiamo già facendo – non possiamo accontentarci di alcune oasi da “preservare”. Usciamo dalla logica della “protezione”, dalla sindrome del Panda (specie protetta, appunto che, guarda caso, si nutre di bambù). Anche questa è una rigidità su cui dobbiamo riflettere. Quando combatto, non voglio “proteggermi” – altrimenti non sarei mai salita sul ring. Voglio vincere. Ritornando all’autenticità, chiediamoci, prima di tutto, perché’ pensiamo al femminismo come una prassi politica. Perché siamo sotto attacco? Non mi basta. Perché vogliamo un mondo che sia anche a misura nostra? Già mi piace di più. Ed io, questo mondo diverso, lo voglio. Di questo tempo, mi voglio riappropriare.
La banalizzazione è uno dei pericoli più grandi, a mio modo di vedere, per un’azione politica. Parole potenti, forti al loro sorgere sono state deformate, svilite, trasformandosi in qualcosa di orrendo alle orecchie di chi le ascolta senza comprenderne il senso originario. Questo è uno dei dispositivi della “politichetta” contemporanea, a cui occorre però stare molto attente. Abbiamo riflettuto su ciò che è accaduto a termini fondamentali come “femminismo” e “genere”. Non credo che la risposta, di nuovo, sia la “difesa” di questi termini. Ma nel loro potenziamento. Nel loro utilizzarli con orgoglio e onestà. La forza che riconosco nella parola “femminista” – e che mi porta ancora e nonostante tutto nel riconoscermi in essa – è di essere una parola autentica e sorgiva. Come una sorgente, infatti, è nata da un nucleo profondo, ed è emersa attraverso strati di roccia, trovando la strada verso la luce, perché’….era giusto. Era giusta. Naturalezza, spontaneità – che i vietnamiti avrebbero definito Thien nien – sono cartine tornasole dell’autenticità. Ma per far sì che la naturalezza riemerga, in un contesto bloccato da armature e barriere, occorre, appunto, fare piazza pulita di tutti gli “edifici” costruitici sopra. Il riferimento a ciò che è successo a Roma, nel quartiere Prenestino, in cui un lago è emerso da un abuso edilizio, non è casuale. Ciò che ci accade intorno è sempre motivo di riflessione. Suggerirei di fare un po’ di pulizia. Buttare via i discorsi che non ci interessano. E ricominciare ad articolare parole semplici, sorgive, autentiche. Con queste parlare. Queste portare nel mondo. Con tutti i mezzi, strategie, modalità che le nostre creatività singole e collettive possono inventare. Parole che non nascono in maniera oppositiva, rifacendosi ad un già detto. Questa sarebbe una reazione. Perché le nostre parole siano azioni, corpi, dobbiamo far sì che sorgano da noi, dal nostro centro. Un centro che è in relazione col mondo: non lungo strade già tracciate, ma attraverso reti sottili e solide, come la tela di un ragno. Reti flessibili, che si ritessono, ogni volta che qualcuno le distrugge. Che cambiano forma, non si irrigidiscono, si rinnovano. E rinnovandosi, non muoiono mai. Così penso a femministe, come ricordava Angela, per bocca di Tristana, come soggetti inaddomesticati, imprevedibili, inattesi.
immagine: Jane Eccles, Silver Lining 1993(66 x 66 cm) acrylic on canvas
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