laboratorio donnae

…con tutta la forza del vento

Silver Lining 1993(66x66cm)acrylic on canvas

Laboratorio Donnae, Roma 11/12 ottobre 2014, restituzione di Alessandra Chiricosta

Pina ha definito questo appuntamento del Laboratorio Donnae come “una svolta”. E la svolta, per la canna di bambù, è il movimento del ritorno, quello in cui afferma se stessa con tutta la forza del vento. “Il ritorno è il movimento del Dao” recita Lao Zi. Riflettendo su ciò che si è detto, fatto, esperito e vissuto a tanti livelli in quei due giorni, mi viene da pensare che nominare le cose non sia altro che accettarne l’esistenza, mettersi nella scia della corrente che stanno mettendo in atto. Le donne che ho incontrato sono già, e da tempo, canne di bambù. Forse c’era bisogno solo di dirselo, come ha osservato giustamente Tristana, per iniziare il movimento del ritorno. Perché’ tutto ciò sta già avvenendo.

Il concetto di “femminista-come-la-canna-di-bambù”’ è stato recepito chiaramente, ben accolto e rilanciato da tutte. Lo interpreto come conferma di ciò che ho scritto all’inizio. Si sono trovati vari modi di declinare questa idea, questa prassi. Le immagini, dice bene Pina, sono modi per comunicare che trascendono la divisione tra teoria e azione. Agiscono direttamente, possono guidare un processo di concettualizzazione o un’azione politica. La canna di bambù, la sua relazione con la tempesta, ci ha dato modo di riflettere su che tipo di forza abbiamo a disposizione, che tipo di forza abbiamo usato o usiamo. E quale non ci interessi usare.

Parto da me. In primis, non sono una quercia. E non solo perché sono “alta” 1,60 cm. Non solo perché’ non ho muscoli sufficienti. Non solo perché’ come appartenente ad un genere “secondario”, non sono ammessa nella regalità del simbolo della quercia. Ma proprio perché’ non mi interessa esserlo. Da femminista, posso ben dire, la mia forza non è di tipo narcisista. Non si bea di se stessa, di ergersi dritta, incurante delle modificazioni che incorrono attorno a se’. Se soffia la tempesta, la mia volontà è di sopravviverle, di trovare modi di flettermi, senza spezzarmi, pronta a ritornare in piedi non appena la furia si sia placata. Perché’ nessuna tempesta dura in eterno. E, soprattutto, non punto al martirio, all’iscrizione al novero dei “begli eroi” che muoiono puri. Puri e sconfitti.

Come ben espresso da Martha Nussbaum, la “purezza” è un concetto pericoloso. Indica, sovente, paura del contagio, e quindi del contatto. Punta all’irrealtà di un mondo senza contaminazione, con-fusione, in cui ciascuna cosa rimanga ben distinta, immobile e separata. Insomma, un mondo di cadaveri congelati. Non è il mondo in cui vivo io, in cui viviamo noi. Non è il modo/mondo in cui voglio vivere. Da guerriera, voglio vincere, perché’ ne va della mia vita, e quella di coloro che amo. Da guerriera, da femminista, da donna, mi sporco le mani.

L’immagine della canna di bambù e il tipo di forza che evoca sono ampiamente utilizzate nell’estetica delle arti di combattimento dell’Asia Orientale e del Sudest Asiatico. Contesti, questi, in cui un immagine “forte” viene fatta lavorare a più livelli. Non si tratta solo di metafore, ma di comprendere sinesteticamente, eticamente, intellettualmente dinamiche e concetti, trasformandoli subito in prassi, in corpo. In pratica, non si parla tanto di progettualità schematiche e fisse, visto che il terreno di battaglia è sempre impervio e imprevedibile, ma di come fare per esercitare al meglio la propria forza in qualunque contesto, puntando alla vittoria. Le riflessioni che seguono, dunque, ripeteranno questa modalità, che ormai è per me la più sincera. La descrizione di un paesaggio, in cui ciascuna si possa trovare, a modo proprio e insieme. Questo il contributo che mi sento di dare

  • La forza del bambù indica, metaforicamente e non, quel tipo di forza elastica, che capisce che forme assumere per tornare con più vigore di prima. Una forza che non si irrigidisce, ma che diviene mutevole come l’acqua, e altrettanto irruenta e inattesa. Perché’ quando proprio si pensa di aver piegato una canna di bambù, questa ritorna in faccia all’avversario con una forza insospettabile per un “arbusto” così snello. Comprendere come flettersi – più che piegarsi – senza rompersi significa per prima cosa capire se stesse, come funzioniamo, quali sono le nostre rigidità e, al contrario, quali le dinamiche in cui riusciamo ad essere fluide. La rigidità è un sintomo di ciò che ci fa paura, di ciò in cui ci sentiamo talmente vulnerabili da non volere che alcuno se ne accorga. Il problema è proprio che quando pensiamo di proteggerli, assecondando la paura, rendiamo ancora più evidenti questi punti, li trasformiamo in un bersaglio. L’armatura che indossiamo può anche proteggerci, fino ad un certo punto, ma si trasforma facilmente in una gabbia in cui ci trinceriamo, che ostacola i nostri movimenti, le nostre possibilità. Entriamo nel dominio della paura e della difesa, quindi della sconfitta. Per questa ragione ritengo molto pericolose tutte quelle definizioni, termini, parole pronunciate riguardo alle donne e alle loro politiche che contemplino l’idea di “difesa”, “protezione”, “sicurezza”. Parole – guardacaso – dominanti nelle narrazioni contemporanee, che non fanno altro che creare un contesto emotivo di paura, di chiusura, in cui la forza non possa fluire liberamente. Se un punto fondamentale per l’esercizio della propria forza è costituito dal riconoscimento della propria vulnerabilità, ciò non significa abbandonarsi ad essa. Occorre operare in direzione della trasformazione della vulnerabilità in forza. La narrazione della vicenda di Lucia, l’analisi fattane dalle amiche di Pesaro è un esempio emblematico di questo processo. Ve ne ringrazio.
  • Autenticità e onestà. Il riconoscimento della propria vulnerabilità è un passaggio fondamentale nella via dell’autenticità. Non di una generica vulnerabilità che accomuna in via ideale tutte, ma delle nostre singole esperienze e dinamiche di vulnerabilità. Da singole e in relazione. In relazioni duali o di gruppo. Con l’ambiente umano e non. Credo che “togliersi l’armatura” sia un’operazione complessa, ma imprescindibile. E’ ciò che marca lo scarto tra “militare” e “guerriera”, riprendendo le immagini offerte da Putino. Essere oneste, sui nostri intenti, le nostre prassi, le nostre motivazioni è una condizione necessaria per avere accesso all’autenticità che ci rende forti, flessibili. Senza giudicarci, ma osservandoci. Nel combattimento, quando ricevo un colpo – magari perché’ sono stata troppo rigida – non devo ripetermi “sei stata sciocca, ti sei fatta colpire”, ma comprendere per quale ragione mi sia irrigidita proprio in quella dinamica. Andare all’origine, per liberare e rendere fluida la parte di me che ha paura. Trasformandola in un punto di forza. Troppo spesso, anche nel femminismo, ho visto atteggiamenti giudicanti, da “dover essere”. Nel manifesto del collettivo F9 abbiamo segnalato questo rischio, proprio perché’, come “femministe storiche” venute dopo, abbiamo sentito il peso – ahimè ben noto in altri contesti – di non essere mai all’altezza di ciò che ci aveva preceduto. E ciò ci veniva più o meno implicitamente fatto pesare, in un’esibizione muscolare di potere, più che di autorità. Ciò che stiamo facendo rende esplicito il processo di trasformazione che e’ avvenuto in noi, la riappropriazione del nostro spazio e del nostro tempo, dei nostri modi. Smettendo di adeguarci ad un dover essere esterno, stiamo riscoprendo la nostra autenticità nell’essere femministe. Se ad altre non sta bene, smette di essere un nostro problema. Porto questo come esempio di cosa intendo quando suggerisco, come si fa nel combattimento, di “non reagire, ma agire”. La reazione è una risposta, nello stesso terreno, nelle stesso modalità e forme, di una pro-vocazione che viene da fuori. Sia essa una paralisi, sia essa attaccare urlando, è sempre una reazione che segue le traiettorie che il mio avversario ha tracciato, in cui lui/lei sarà più forte. L’azione è sempre qualcosa di originale e originario: non si sa mai a priori che forma prenderà e origina sempre dinamiche nuove. In questo senso, ho apprezzato molto il percorso delle Pussy Riot. La loro non è stata una “mera performance”. Di nuovo, invito ad un pensiero non “rettilineo”, non “catalogante”, ma circolare e osservante. Il problema non è definire se le performances in se siano una cosa buona o meno, ma capire quando e come una performance sia un’azione e non una reazione. Azione e autenticità sono indissolubilmente legate. L’azione parte da me, come riflessione, di tutta me stessa, su ciò che sta accadendo. Come appropriazione e trasformazione, lungo le mie linee di forza, di quegli elementi che “premono da fuori”. La rabbia, si diceva nel nostro incontro, può essere una trappola, così come un valido alleato. Dipende da che me ne faccio. Se la osservo, l’abbraccio e la canalizzo, rabbia e indignazione diventano propellenti potenzianti per la mia azione. Ma se cedo al loro impeto, esse diventano un carburante per la mia armatura, mi rendono cieca, sorda, insensibile e, quindi, debole. Devo interrogare la mia rabbia, capirla senza perderne la potenza. Capire cosa esattamente l’abbia originata, sentire come agisce in me. Prendermi il tempo per trasformarla. Canalizzarla lungo i miei meridiani – forse non è un caso che le prime forme di reti idrauliche in Asia Orientale venissero eseguite usando canne di bambù. Fondamentale è essere connesse al centro, al punto reale di equilibrio di ognuna. E’ quello il punto di trasformazione della pressione esterna in azione. Il centro è l’origine della mia autenticità. Il centro è la mia pancia.

Il boschetto di bambù diviene una foresta. Se una singola canna di bambù resiste anche alla tempesta più travolgente, ritornando carica di forza, quanta forza può sprigionare un bosco di bambù? Direi la forza di mille tempeste. Mi ha sempre meravigliato l’ordine che regna in un boschetto di bambù. Le singole canne crescono vicine, vicinissime, ma non si soffocano reciprocamente. Si piegano all’unisono, ma ciascuna a modo suo. C’è una forma di “intelligenza vegetale” che fa si che non ci sia bisogno di un cervello centrale, ma dell’essere ciascuna autenticamente…una canna di bambù in un boschetto di canne di bambù. Il bambù è invasivo. Si radica nel territorio e inizia a diffondersi, canna dopo canna, occupando tutti gli spazi disponibili. Il boschetto cresce, in altezza, in larghezza. Diviene fitto, impenetrabile. Queste riflessioni mi sembrano particolarmente pertinenti nella ricerca di una forma di politica delle donne che prenda ispirazione dal bambù. Da quando sono tornata in Italia, ho sentito l’esigenza di “rimettere radici” nella mia terra. Per farlo, ho dovuto capire, sentire cosa, quale fosse la mia terra. Ho scoperto che e’ piena di boschetti di bambù. Proprio laddove non ce lo si sarebbe mai aspettato. Proprio negli spazi, nei luoghi “marginali”, il bambù “poco esigente, che si adatta a qualunque terreno” (da definizione botanica) ha attecchito e si è esteso. Ritengo che questa capacità di vivere nel territorio, trasformandolo, sia il tratto più importante, la cifra di una strategia politica forte. Le piante non hanno un sistema nervoso centrale. Ma agiscono “come se” l’avessero. Il terreno è ciò che permette alla pianta di vivere. E la pianta, vivendo, trasforma il territorio. Non credo sia saggio pensare a politiche comuni pensate dall’alto. E’ dai singoli contesti che occorre ripartire – e in cui occorre rimanere, direi. Rimanere, facendo, però, muovere le proprie “spore”. Sembra paradossale, ma stanzialità e nomadismo non sono due termini contrastanti. Non se ritorniamo ad una visione “radicale” – è proprio il caso di dirlo – di essi. Le piante non sono immobili, al contrario. Crescono in altezza e in larghezza. Radici e fronde avanzano nel terreno e, nel contempo, nel cielo. Inoltre, lanciano i propri “semi”, i propri messaggi fino a distanze inimmaginabili. Magari un seme viene mangiato da un uccello, digerito e “depositato” a kilometri di distanza. Essendo radicate, ci spostiamo in tutto il mondo. Mettere in comunicazione analisi e prassi, riflessioni e pratiche che possano essere riadattate, innestate in altri territori. Ma il territorio non si abbandona. Sradicamento significa morte. Chiederei a ciascuna di farsi giardiniera del proprio boschetto, pensandolo però come una foresta potenziale. Ogni terreno ha la propria specificità, che solo chi lo abita, chi lo ama può conoscere e interpretare. Ma se si vuole pensare in grande – ed è quello che stiamo già facendo – non possiamo accontentarci di alcune oasi da “preservare”. Usciamo dalla logica della “protezione”, dalla sindrome del Panda (specie protetta, appunto che, guarda caso, si nutre di bambù). Anche questa è una rigidità su cui dobbiamo riflettere. Quando combatto, non voglio “proteggermi” – altrimenti non sarei mai salita sul ring. Voglio vincere. Ritornando all’autenticità, chiediamoci, prima di tutto, perché’ pensiamo al femminismo come una prassi politica. Perché siamo sotto attacco? Non mi basta. Perché vogliamo un mondo che sia anche a misura nostra? Già mi piace di più. Ed io, questo mondo diverso, lo voglio. Di questo tempo, mi voglio riappropriare.

  • Semplicità e Parole sorgive. Per trasformarci in foresta dobbiamo crescere, in numero e forza. Un processo che è, al contempo, individuale e collettivo. Le nostre azioni, il loro senso, devono arrivare al di là dei rassicuranti circuiti già noti. Di nuovo, il racconto del processo di Lucia diviene modello esemplare. In questo caso, come in molti altri, il corpo di Lucia si è fatto parola. E parola autentica. Parola-corpo che è già azione. E ciò grazie al sostegno del gruppo che non l’ha lasciata sola, che ha presenziato in modo vigile, mai distratto, ogni fase del processo, vanificando ogni tentativo di far scivolare tutto nella banalizzazione del “già detto”. Ha ragione Tristana, di nuovo. Questa forza già c’è.

La banalizzazione è uno dei pericoli più grandi, a mio modo di vedere, per un’azione politica. Parole potenti, forti al loro sorgere sono state deformate, svilite, trasformandosi in qualcosa di orrendo alle orecchie di chi le ascolta senza comprenderne il senso originario. Questo è uno dei dispositivi della “politichetta” contemporanea, a cui occorre però stare molto attente. Abbiamo riflettuto su ciò che è accaduto a termini fondamentali come “femminismo” e “genere”. Non credo che la risposta, di nuovo, sia la “difesa” di questi termini. Ma nel loro potenziamento. Nel loro utilizzarli con orgoglio e onestà. La forza che riconosco nella parola “femminista” – e che mi porta ancora e nonostante tutto nel riconoscermi in essa – è di essere una parola autentica e sorgiva. Come una sorgente, infatti, è nata da un nucleo profondo, ed è emersa attraverso strati di roccia, trovando la strada verso la luce, perché’….era giusto. Era giusta. Naturalezza, spontaneità – che i vietnamiti avrebbero definito Thien nien – sono cartine tornasole dell’autenticità. Ma per far sì che la naturalezza riemerga, in un contesto bloccato da armature e barriere, occorre, appunto, fare piazza pulita di tutti gli “edifici” costruitici sopra. Il riferimento a ciò che è successo a Roma, nel quartiere Prenestino, in cui un lago è emerso da un abuso edilizio, non è casuale. Ciò che ci accade intorno è sempre motivo di riflessione. Suggerirei di fare un po’ di pulizia. Buttare via i discorsi che non ci interessano. E ricominciare ad articolare parole semplici, sorgive, autentiche. Con queste parlare. Queste portare nel mondo. Con tutti i mezzi, strategie, modalità che le nostre creatività singole e collettive possono inventare. Parole che non nascono in maniera oppositiva, rifacendosi ad un già detto. Questa sarebbe una reazione. Perché le nostre parole siano azioni, corpi, dobbiamo far sì che sorgano da noi, dal nostro centro. Un centro che è in relazione col mondo: non lungo strade già tracciate, ma attraverso reti sottili e solide, come la tela di un ragno. Reti flessibili, che si ritessono, ogni volta che qualcuno le distrugge. Che cambiano forma, non si irrigidiscono, si rinnovano. E rinnovandosi, non muoiono mai. Così penso a femministe, come ricordava Angela, per bocca di Tristana, come soggetti inaddomesticati, imprevedibili, inattesi.

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immagine: Jane Eccles, Silver Lining 1993(66 x 66 cm) acrylic on canvas

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