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immaginare il corpo fertile nel terzo millennio

fortinRitengo utile pubblicare, in vista dell’incontro di sabato 25 gennaio a Roma, scritti di donne  su una questione che sento centrale e che ho più volte nominato: la responsabilità e il privilegio di avere un corpo che può generare.  

Già uno degli incontri dei  5finesettimanadipolitica , si chiamava: Avere un corpo fertile.  Gli appuntamenti – 5 fine settimana – curati da Federica  Giardini e da me, si sono tenuti nel 2010 e ruotavano intorno alle narrazioni  di donne di generazioni diverse, su un tema che cambiava ogni volta. Segue  una di quelle narrazioni, pubblicherò altri contributi. Pina Nuzzo

 

Claudia Bruno: Immaginare il corpo fertile nel terzo millennio

Sono contenta di partecipare ad un incontro che parte dal chiedersi cosa significa avere un corpo fertile e che non imposta il discorso in termini di riproduzione. “Riproduzione” è una parola che non mi piace usare. Riflettere a partire dal “corpo fertile” mi ha dato invece la possibilità di uscire fuori dai binari di vecchi discorsi e categorie, che forse rischiano di soffocare quel poco di autentico che una giovane donna può portare al dibattito sui corpi, proprio a partire dall’esperienza che del corpo si trova a fare ogni giorno.

Avere un corpo fertile per me, prima di tutto significa avere un corpo. Significa quindi prendere le misure di questo corpo, imparare a parlarci, a sopportarlo, a portarlo in giro con le sue soglie di resistenza al dolore, con il suo desiderio di godimento. Ma significa anche incappare in quelle manifestazioni inaggirabili della sessualità che sono già lì, incarnate e presenti. Avere un corpo sessuato, quindi, capace però di spostarsi fuori e oltre i suoi confini, di manifestarsi creativo, di dare spazio all’imprevisto, di incarnare ogni volta una forza vitale di cambiamento, e questo nonostante la sembianza che ognuna vuole dare alla propria libertà.

Pensare alla dimensione fertile del mio corpo mi porta subito alla domanda: fertile rispetto a cosa? Solo dopo comincio a dare un nome alla molteplicità degli strati di me che percepisco come fertili, e in relazione ai quali la fertilità biologica rappresenta una dimensione a cui le altre non possono essere ridotte, ma con la quale comunque devono fare i conti.

La prima immagine che mi viene in mente è quella di un corpo che produce. Perché la fertilità di un corpo si estende a tutto quell’insieme di saperi che lo rendono felicemente produttivo prima ancora che riproduttivo. Un corpo produce relazioni, contatti, cure, saperi, tecniche, pratiche, invenzioni. Avere un corpo fertile è stato per mia madre, per mia nonna, non semplicemente avere un corpo in grado di rimanere gravido, ma soprattutto avere un corpo in armonia con la produttività della terra, con i suoi tempi, con la gioia di vivere e scambiare all’interno della comunità di cui si trovavano a far parte. Erano donne che sapevano fare. Cosa sa fare il mio corpo?

Sempre più chiara mi appare la perdita di queste capacità nel passaggio da una generazione all’altra. Al mio corpo attuale non resta che la fertilità intesa per parte maschile, il mio corpo non è che un corpo “inseminabile”, un corpo che non sa fare e produrre per la gioia del suo vivere ma che lo fa per conto di altri. La mia fertilità è già ridotta alla procreazione oppure alla sottoscrizione intellettuale di progetti partoriti da menti maschili, suddivisa in riproduzione materna e produzione di mercato.

In questo modo sento che viene meno non solo il saper fare nel privato ma soprattutto la forza del mio corpo nello spazio pubblico, quindi la sua fertilità sociale, politica. Qui il mio corpo diventa un fardello, ingombrante, che puntualmente cerco di relegare all’invisibilità e al silenzio. L’unica fertilità che mi è concessa, insomma, è quella di testa, da cui il mio corpo si separa gradualmente e a cui cerca di ridurre le sue esigenze. Non ho ricette, non ho pratiche ereditate da una cultura di corpi femminili. Questi saperi, muoiono con  le donne nate prima. Per passarli a me, non c’è stato il tempo, non c’è stato il modo. Il mio corpo è un corpo sradicato, la genealogia è spezzata. È questa rottura che sto provando a risolvere attraverso un lento lavoro di ricomposizione, insieme ad altre donne con cui mi confronto da due anni a partire dal pensiero della differenza sessuale.

Una delle dimensioni che più mettono a rischio la fertilità del mio corpo è il lavoro (1), qui il mio corpo resiste prima ancora di esprimersi, una situazione che più volte mi è capitato di ricondurre allo “stato di cattività” animale. Credo che lo spostamento della produttività dal ciclo della vita al ciclo delle merci non sia coinciso precisamente con una liberazione (come metafora di questo equivoco mi viene in mente il tentativo, che abbiamo sotto gli occhi in più contesti, di sostituire la pratica d’allattamento al seno con il marketing del latte in polvere). Spostare la fertilità dei corpi nel mercato del lavoro, mi viene da dire anche – con tutta la riconoscenza possibile nei confronti delle donne venute prima – non mi sembra sia stata una strategia di libertà completa. Ci sono ulteriori passaggi che restano da fare. Credo che far leva sulla percezione di sradicamento possa essere un modo per iniziare a pensarci…

Per esempio, so che il mio corpo è un corpo animale. Conosco bene i rischi che comporta ricondurlo alla dimensione non umana, naturale, istintiva dell’esistenza, che mi è stata imposta come antagonista e minore rispetto a quella umana, culturale, razionale. Nonostante ciò, sento di voler recuperare e reinventare questa dimensione da cui vedo che molte, invece, continuano a tenersi cautamente alla larga. Mi sembra proprio che la fertilità resti un nodo problematico delle nostre esistenze, una voragine irrisolta tanto più nel tempo che ci troviamo a vivere, dove pensare a politiche di libertà significa sempre e comunque articolare il discorso in termini di politiche di controllo sul corpo. Penso, ad esempio, alle pillole del giorno dopo, ma anche a quelle del giorno prima, che hanno cambiato il modo che una donna ha di “gestirsi il corpo”. È un modo che sento come riduttivo rispetto a quella che può essere la libertà del mio corpo, e che anzi più spesso funziona come un ostacolo all’autenticità del suo stare al mondo. Mi piacerebbe vivermi il corpo – e di fatto ci provo quotidianamente – fuori dalle categorie maschili a cui il percorso femminista ha dovuto inevitabilmente dare spazio. Mi piacerebbe raccontare altre storie.

Penso alle mie antenate, il mio corpo è diverso dal loro. Con la mediazione della tecnica androcentrica ad essere cambiata è soprattutto la percezione che di questo corpo ho. Per renderla visibile ho pensato di tracciare un breve percorso per immagini raccolte durante il lavoro della mia tesi di laurea attraverso la lettura dei testi di alcune studiose contemporanee (2) che al dibattito sui corpi hanno dedicato gran parte delle loro energie.

Frammentazione. Il mio corpo non è più intero, è un corpo “fatto a pezzi”, mi è sempre più difficile percepirlo nel suo insieme, in tutta la sua forza. Il meccanismo che ha reso possibile la frattura ha sicuramente a che fare con la graduale trasformazione di questo corpo in qualcosa di trasparente verso l’esterno (3). Il mio corpo non è più un corpo “opaco”, che si autorizza a parlare per sé di volta in volta, ma un dato per il quale l’ultima parola spetta sempre a qualcun altro (il medico, l’esperto, il papa, i media, il datore di lavoro). Penso anche solo alla visita ginecologica, dove viene preteso da te un approccio al corpo che fino a quando eri fuori dalla porta non ti apparteneva (il calcolo preciso dei giorni del ciclo mestruale, la schematizzazione della tua vita sessuale, la valutazione del metodo contraccettivo che fa “al caso tuo”, ma anche il completo affidamento ad altre mani e strumenti, che si muovono sopra e dentro il tuo corpo con sicurezza);

Mostruosità. Esiste un limite di valori entro cui il mio corpo è ritenuto “sano”, al di fuori di questo limite è richiesto l’intervento della tecnica, la tecnica interviene per arginare le abiezioni del mio corpo, la sua anormalità (4);

Corpo-contenitore. Come caso estremo mi viene in mente l’esempio del “bambino di Erlangen” che fa Barbara Duden (5), che poi in certi sensi è un’idea vicina a quella che ha sfiorato la vicenda di Eluana Englaro (6). Ma anche, il fatto che il dibattito politico sulla sopravvivenza globale ruoti puntualmente attorno al corpo delle donne come corridoio demografico e veicolo alimentare.

Sradicamento. Percepisco il mio corpo come sradicato dalla sua reale fertilità e allo stesso tempo sento che questa percezione si estende anche alle altre donne che condividono con me il tempo presente. I corpi delle donne del terzo millennio mi appaiono testimoni di una espropriazione di pratiche e culture a più livelli, che si realizza attraverso una serie di sostituzioni con le culture e le pratiche della catena di montaggio globalizzata.

In fondo sono tutte immagini di espropriazione. La fertilità dei nostri corpi è stata messa a servizio, è diventata mercato. Mi piace pensare che le donne possano ancora riappropriarsi del loro corpo fertile, e che possano (che possiamo) farlo insieme.

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1    Attualmente lavoro da casa per più progetti, quindi passo tutti i giorni dell’anno fino a nove ore davanti al pc. Ma ho lavorato anche in un grande ente pubblico, per un anno, passando ogni giorno otto ore in ufficio e tre sui mezzi pubblici, e posso dire che il mio corpo si è dimostrato insofferente a entrambe le situazioni.

2  Mi riferisco, tra le altre, a Rosi Braidotti, Barbara Duden, Donna Haraway, Vandana Shiva.

3  Duden B., Il corpo della donna come luogo pubblico, Bollati Boringhieri, Torino, 1994

4   «Il mostro è l’incarnazione della differenza dalla norma», cfr. Braidotti R., Madri, mostri, macchine, Manifestolibri, Roma,2005, cit. p. 81

5     Duden B.,  Il gene in testa e il feto nel grembo, Bollati Boringhieri, Torino, 2006

6  Tra le varie improbabili affermazioni di Berlusconi, c’è anche quella che il decreto legge contro l’interruzione della nutrizione artificiale era stato necessario perché, Eluana era «Una persona che potrebbe anche avere un figlio», fonte: www.repubblica.it 6 febbraio 2009.

l’immagine è un’opera di Dominique Fortin

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