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Violenza patriarcale e Maternità

di Chiara

Tra le ferite che mi ha lasciato il patriarcato c’è stata quella di impedirmi di diventare madre. Se oggi io non ho figli è perché il patriarcato, la sua violenza me lo ha impedito.

L’idea di diventare madre mi ha spaventata per tanto tempo, avevo paura, pensavo al mio corpo trasformato come mostruoso, al bambino/a nel mio corpo come un’invasore. Non mi interrogavo sull’origine di questa paura, facevo solo di tutto perché non accadesse. C’è voluto tempo prima che capissi che il mio corpo non era mio, per questo lo rifiutavo, era controllato dagli uomini che mi hanno fatto violenza. La sessualità che avevo vissuto era un’esperienza di continua violazione e umiliazione. Era una performance e un servizio dove io non esistevo o meglio esistevo come simulacro e feticcio. Quando sono riuscita a riprendere il mio corpo e la mia vita è stato come voltarsi indietro e guardarsi: il rigetto nei confronti della maternità era in realtà provocato dagli uomini che sapevo avrebbero colonizzato il mio corpo per avere da me i loro figli. Avrei dovuto essere quella madre perfetta, idealizzata, passiva, succube e muta. Un’icona morta che li avrebbe celebrati, li avrebbe rassicurati nel loro ruolo di padroni. Di me non sarebbe rimasto nulla. Ero già stata la loro bambola sessuale, ma con un figlio il pericolo era ancora più grande: quella bambina/o non sarebbe stato mio. Io avrei dovuto solo servire ancora una volta, essere succube, ma poi loro lo avrebbero controllato come controllavano me. E sarei stata ancora più disperata perché avrei avuto su di me anche la responsabilità di una nuova vita che cresceva nella violenza, la mia, quella che subivo, la sua, quella che avrebbe subito. E ho detto no, l’unico vero no che sono riuscita a dire e di cui sono orgogliosa anche se ho pagato questa scelta con l’assenza, un’assenza che poi negli anni avrebbe provocato altro dolore.

Genealogia della cura: Essere curate, prendersi cura

La liberazione dalla violenza è stata lenta e dolorosa, a volte mi chiedo chi fossi mentre partecipavo alla mia distruzione. Eppure c’è sempre stata una me stessa che resisteva, che non piegava la testa, che si ribellava e voleva scappare. Quella me stessa autentica era figlia di mia nonna (e con il tempo poi ho capito anche di mia mamma) ed è grazie a lei che mi sono salvata. La sua cura ha risuonato in me, è stata quella cura che mi ha fatto cercare altre donne per curarmi e curare. Da quando mia nonna è mancata, come succede a tutte le persone che vivono la perdita di una persona cara, ho sentito che il solo modo per sopravvivere alla sua scomparsa era custodirla dentro di me. La sua morte e il mio invecchiare ha fatto rinascere in me un forte desiderio di cura. Ho cominciato a pensare alla maternità come un’espressione di potenza, come la grandezza di un corpo e di uno spirito che sanno proteggere, custodire, accompagnare. Mia nonna non mi ha partorito, ma ha partorito mia mamma e si è presa cura di me come fossi sua figlia. Con lei ho sviluppato una sorta di simbiosi, per me lei è l’amore. Quando avevo vent’anni avevo chiaro che l’amore era mia nonna, ma pensavo che esistesse un altro amore, quello romantico, celebrato da letteratura, cinema, arte che ho poi scoperto essere un’invenzione patriarcale costruita per renderci complici della nostra sottomissione. Con gli anni ho capito che l’unico amore per cui valeva la pena vivere era la cura: riceverla e darla in uno scambio circolare perpetuo.

Essere amate dalla madre, essere madre

Mia nonna è per me il modello, l’idea della cura. Attraverso mia nonna io ho osservato e compreso che cosa significa essere madre, prendersi cura. Mia nonna proteggeva senza invadere, accompagnava senza perdere la sua autonomia e indipendenza, raccontava e trasmetteva sapienza, ascoltava e accoglieva, era un rifugio sicuro, era l’amica che mi faceva ridere, la forza quando mi sentivo debole. Quando ha cominciato ad aver bisogno di aiuto a causa dell’età che avanzava, ho iniziato a fare tutto quello che era necessario perché lei stesse bene, per continuare a stare insieme come prima, solo che a prendermi cura di lei come lei aveva fatto con me fino a quel momento ero io. Mi ricordo una volta stavamo andando sulla spiaggia e lei aveva dimenticato l’asciugamano con cui si proteggeva le spalle, sono corsa a prenderlo e una signora era stupita di come correvo quando invece era un gesto normale. Ero felice di prendermi cura di lei, era il mio turno, era bello essere madre di mia madre. Lei continuava comunque a prendersi cura di me con la sua presenza, le parole, i gesti. Mia mamma anche si è presa cura di nonna quando ha avuto bisogno di assistenza e lo abbiamo fatto insieme. La cura tra donne è un cerchio che si rinnova dove chi è curato sviluppa il desiderio di prendersi cura. Così adesso mi prendo cura di mia mamma come ho fatto con nonna, lei continua a fare la mamma, questa volta però permettendo anche a me di farlo.

Cura e senso: mettere al mondo

Come tutte le giovani donne sono cresciuta con il mito del raggiungimento di obiettivi maschili-patriarcali: vengono presentati come neutri e anzi conquiste per la parità ma restano quello che sono, traguardi che ho sentito sempre di più estranei alla mia natura e ai miei desideri di donna. Essere la prima della classe, laurearsi, due dottorati di ricerca, un percorso accademico, il miraggio del lavoro intellettuale. Volevo che mia nonna e mia mamma fossero orgogliose di me ma ho capito, dopo anni di studio e dopo essere stata ‘espulsa’ da un ambiente che era così lontano da me e dal mio vissuto, che quello che avevo raccolto in quegli anni di sacrifici era solo dolore. I valori di quell’ambiente non mi avrebbero mai dato quello che cercavo. La maternità mi spaventava anche per il raggiungimento di quegli obiettivi ‘sacri’, se fossi diventata madre non avrei mai potuto finire gli studi, costruire una carriera. Gli studi alla fine li ho conclusi sempre con risultati eccellenti, ma il percorso di carriera si è interrotta per una serie di fattori: di classe, ma prima di tutto a causa del mio sesso. Aver vissuto una violenza ha sì spezzato il mio tempo sottraendolo alla costruzione di un curriculum competitivo, il tempo del carrierismo patriarcale, ma mi ha anche dato la possibilità di guardare al tempo con occhi diversi: il tempo della produzione capitalista-patriarcale è il tempo del ‘fare’ vuoto, meccanico, individualista, mai del ‘prendersi cura’. Il mio desiderio invece era di continuare a fare quello che mia nonna e mia mamma avevano fatto con me. Mettere al mondo non significa essere delle donne inferiori, nè serve degli uomini, ma oggi lo so, significa vivere pienamente perché nessun uomo può toglierti il potere della cura. E solo la cura riesce a soddisfare i miei desideri, a riempire la mia vita di senso.

Nullipara

Il vuoto che ho cominciato a provare dopo i quarant’anni è stato devastante, si è insinuato piano dopo la fine delle mie prospettive di carriera, mi sono ritrovata tradita da obiettivi che era evidente non avrei mai potuto raggiungere. Mi sono colpevolizzata e ancora oggi persiste il pensiero negativo di essere una ‘fallita’, di non aver realizzato quello che altre donne che hanno condiviso con me il percorso di studi e lavoro hanno portato a compimento, il mio precariato si è fermato con me, le altre hanno avuto il ‘posto fisso’, la carriera per cui avevano lottato. Ma il mio desiderio mi portava lontano, non avrei mai potuto piegare la mia natura a tutto quello che non ho mai condiviso. Accettare la mia diversita è una sfida che porto avanti tutti i giorni vivendo contraddizioni e lacerazioni. Mi sono sottratta al mondo del lavoro per asfissia, ero diventata una cosa tra le cose, ma ho dovuto guardare in faccia il vuoto che il mondo del lavoro (da sfruttata) mi ha lasciato: oggi leggere su un referto medico “nullipara”, donna senza figli, mi ferisce. Vieni classificata per motivi ‘medici’ come se fosse un dato oggettivo, ma quello che la società attribuisce a questo dato è un simbolico repressivo: donna incompiuta e quindi inutile oppure donna che ha scelto di non avere figli per investire su se stessa. Due stereotipi patriarcali speculari che non mi definiscono e non riconoscono, non danno spazio al mio desiderio di cura. Avrei voluto essere per qualcuno quello che mia nonna è stata per me: non perché voglio essere amata in modo esclusivo o perché ho qualcosa di importante da dire, ma per lei. L’idea di aver interrotto un cerchio, una ciclicità che mi ha dato felicità mi addolora, è una perdita non poter parlare a qualcuno di lei, continuare quello che lei ha creato.

Riprendersi il materno: Gattare donne di cura

Da un paio di anni ho iniziato a conoscere donne che si occupano di gatti randagi, creature ultime e dimenticate, bisognose di cure come bambini. Da tanto tempo sentivo il bisogno di avvicinarmi a donne che come me avevano un desiderio di cura e le gattare spesso non hanno figli e sono stigmatizzate anche per questo come “pazze”, “brutte” e “vecchie”. Questo giudizio è legato alla fine dell’età fertile che per una visione patriarcale significa la fine dell’utilità di una donna, il suo potenziale da sfruttare sia in ambito riproduttivo che in molti casi anche sessuale (anche se come mi insegnava mia nonna le molestie degli uomini non finiscono con la fine della gioventù). Ho trovato bellezza in queste donne e mi sono riconosciuta, mi sono sentita meno sola e persa. Con mia mamma abbiamo allattato un gattino abbandonato di 20 giorni, siamo riuscite a salvarlo, a farlo crescere bene. La felicità dell’accudimento, del gioco, del mettersi in comunicazione con un essere che non parla e di cui devi imparare a capire comportamenti per aiutarlo e comunicare, l’emozione di quel contatto profondo che è il suo affidarsi a te e il suo essere felice grazie alle tue cure è un’esperienza di pienezza che nessun traguardo di ‘studio’ o ‘lavorativo’ mi ha mai dato.  Se il ‘lavoro’ o la ‘carriera’ è svuotato di ‘cura’ ovvero di relazioni è solo un’esperienza alienante di annientamento, una forma di ‘snaturamento’ profondo.

Alla figlia che non ho avuto

Vorrei poter dire alle ragazze di non ascoltare chi celebra la mistica della maternità come sottomissione al disegno patriarcale, il mito della madre perfetta, la serva passiva al servizio di padre e marito, ma di stare attente ad una narrazione mitica altrettanto pericolosa diventata popolare in epoca post-moderna: quella della finta parità, della corsa ad essere come loro, i ‘vincenti’, le loro carriere perfette, la conciliazione lavoro-famiglia dove a perdere siamo sempre noi donne. Hanno colonizzato ogni luogo del sapere e del potere, la parola politica delle donne arriva ma spesso tardi quando si sono fatte scelte che si pagano poi a caro prezzo: il cosiddetto amore romantico di un uomo che vuole controllarti e renderti sottomessa e felice di esserlo, gli studi ( di stampo patriarcale) che magari invece non portano alla realizzazione dei propri desideri o quando anche sembra che così accada la constatazione che devi comunque cedere a compromessi per seguire carriere maschili basate su individualismo, assenza di etica, competitività. Per il patriarcato devi essere e sopratutto mostrarti invulnerabile quando le vite delle donne tutte sono segnate dalla violenza, dove le nostre ferite scritte nel nostro sesso sono fatte di discriminazione, forme di degradazione dall’insulto, alla molestia, alla violenza sessuale fino al femminicidio. E nonostante questo la forza delle donne è indiscutibile, è quella che continua a farci resistere, a salvarci e salvare. Il mondo senza cura è destinato a morire e l’ultimo evento globale la pandemia non fa che dimostrarcelo. Sfruttare la terra, massacrare gli animali, le bambine e bambini, le donne è quello che la violenza patriarcale continua a fare, contro cui le donne da sempre si battono. Il femminismo mi ha restituito dignità e senso e grazie alle madri femministe che ho letto e ho incontrato oggi so che il mio desiderio di cura è la mia forza, non la mia debolezza. Il patriarcato ha tentato di colonizzare anche le produzioni di senso e le lotte del movimento delle donne infiltrandosi, sostituendosi, tentando di addomesticare la radicalità della lotta femminista. Tra le mie coetanee molte sono rimaste irretite dalla retorica maschile travestita di ‘femminismo’ dove disporre del nostro corpo significherebbe lasciarlo nelle loro mani,  farlo gestire da sfruttatori che si appropriano del nostro sesso, del nostro utero.

Oggi però grazie alle madri femministe abbiamo la forza e il coraggio per dire che il materno, la cura hanno valore, potenza, grandezza. Che l’intera società deve cambiare, ruotare intorno al corpo generativo, principio dell’esistente, se vuole continuare ad esistere.

 

immagine, Suzanne Valadon 1919

 

 

 

 

 

Un commento su “Violenza patriarcale e Maternità

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Questa voce è stata pubblicata il 29 settembre 2020 da in donne, testimonianze, violenza con tag , , .

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