laboratorio donnae

dal maschisochismo all’identità di genere

HANNAH CLAUS  cloudMi chiamo Laura, sono nata in Italia nel 1986. Vorrei raccontarvi uno dei percorsi che sto affrontando nella mia vita: la strada dal maschisochismo all’identità di genere.

Questa storia inizia l’8 Marzo 2012. Qualche mese prima, una ragazza più giovane di me aveva subito uno stupro brutale all’uscita da una discoteca a Pizzoli, L’Aquila.  Lasciata sulla neve, quasi morta, si riesce a salvare perché la bassa temperatura rallenta il pericoloso fluire del sangue; entra in ospedale; non ricorda cosa è accaduto qualche istante prima: della strada percorsa dalla discoteca alla neve, nella sua mente rimane solo un vuoto. È viva, è sopravvissuta.

Quella ragazza studiava all’Università dell’Aquila, era una scelta che avevo ipotizzato anch’io, finite le scuole superiori, quando volevo studiare criminologia. La notizia arriva in fretta a Tivoli, luogo in cui abito e città natale di Rosa, la ragazza nella neve.

All’inizio, l’indignazione prende il sopravvento, non ho un pensiero razionale e preciso a riguardo, so che hanno colpito Rosa, so che non voglio rimanere in silenzio; non so chi sia Rosa, non so che volto abbia, ma sarebbe potuto capitare a me, alla mia migliore amica, a mia sorella… capita a troppe donne, troppo di frequente. “Cultura di genere” e “Femminicidio” sono parole che ancora non conosco, sono solo profondamente arrabbiata, perché se un ragazzo esce per andare in discoteca, al massimo si deve preoccupare di non prendere una multa per guida in stato di ebbrezza; una ragazza, invece, non si sa se torna; se torna sulle sue gambe; se torna con il corpo e la mente sani e forti come quando era uscita di casa. Ingiustizia.

Altre donne della mia città provano in quei giorni quel profondo senso d’ingiustizia.

Scegliamo quindi, l’8 Marzo del 2012 di fare una fiaccolata in piazza, per Rosa, per noi, per le donne, una fiaccolata in cui mostriamo dei cartelli, la cui scritta dice semplicemente “No alla violenza sulle donne”, in tutte le lingue del mondo.

Noi donne ci mettiamo in cerchio, nella piccola piazza, a scandire degli slogan, alternando le nostre voci e un uomo ci prende in giro, cantando “Giro Giro Tondo…”; e magari cascasse il mondo, ogni volta che un atto violento colpisce una donna o un bambino, la verità è che il Mondo, allora, rimbalzerebbe come una pallina da ping pong ogni secondo.

Le nostre voci non si affievoliscono quella sera; non si torna indietro. Rosa adesso affronterà il processo e noi facciamo nascere l’Associazione 8Marzo2012 – contro la violenza. Perché Rosa è tutte le donne. Perché le donne vengono aggredite, violentate e uccise, perché sono donne.

E io che donna sono?

Se mi incontri per strada, sembra che mi sono infilata nella doccia e subito dopo nell’armadio e di corsa sono uscita senza neanche guardarmi allo specchio; e come lo stereotipo vuole, non ci metto poco a prepararmi, almeno un’ora, ma perché mi fumo una sigaretta, tra una cosa e l’altra. Sono culturalmente e socialmente impegnata, ho una laurea triennale, mi piace la musica, il teatro, il cinema, i libri. I libri soprattutto, da bambina sognavo di diventare una scrittrice o d’inventare videogiochi. Da grande, fatico a trovare un posto di lavoro come commessa in una libreria e nonostante gli studi, i corsi e le corse, alterno lavori saltuari, malpagati, non riconosciuti, in nero, precari. Se su un annuncio di lavoro leggo “Cercasi persone di bella presenza”, il curriculum non lo invio, mi sembra di avere una presenza guardabile, niente di più. E mentre sfreccio, da una via all’altra della mia città, mi ferma la signora anziana del quartiere “Ma il ragazzo? Quando ce lo presenti?”; rispondo “Adesso, non ho tempo di pensare pure a lui” e intanto rifletto “Sono entrata in età da marito e questa è la domanda che mi sentirò ripetere per i prossimi dieci anni, correlata alla seconda, ovvia, domanda E un nipotino quando ce lo fai?”. Nessuna delle due. Non prevedo un matrimonio in abito bianco, né un figlio. Ma le donne sposano gli uomini e mettono al mondo i figli. E io che metterò al mondo? Io volevo mettere al mondo un ideale, una rivoluzione, un cambiamento. Io metto al mondo un cambiamento sì, tanto i figli non mancano.

Ma sono lo stesso una donna? Anche senza un marito, un figlio? E che donna sono? Una femminista? No, che parolone, mangio da McDonald e bevo CocaCola, una femminista non si piegherebbe mai allo strapotere di una multinazionale. Non sono una moglie, non sono una madre, non sono una vera femminista, ma non sono nemmeno bella. Sono nata donna, figlia. Cucino abbastanza bene, i cibi freddi. Non so stirare. Sono lo stesso una donna? A volte, sembro l’approssimazione di un uomo. Da bambina giocavo con i giochi da maschio e il colore rosa non mi è mai piaciuto. “Non esistono donne importanti” pensavo e quando mi rimproveravano “Ma non metti mai una gonna?”, io replicavo “Eh no, che poi basta poco a ritrovarsi con un marito, due figli, le camicie da stirare e la cena da preparare”.

Nasce da qui il maschisochismo, che è l’unione di maschilismo e masochismo. Maschilismo perché credi che gli uomini siano più intraprendenti, più capaci, più impegnati, hanno lavori più interessanti, vengono pagati di più e sono anche più fighi, se riescono a portarsi a letto una donna. Le donne sono frivole, parlano continuamente del ciclo, delle unghie e non hanno ambizioni. No, io decisamente non sono una donna! E poi c’è il masochismo: sono una donna, quindi forse sono strana io nel desiderare un lavoro equamente retribuito, che non abbia a che vedere con l’estetica o l’accudimento dei bambini. Io sono una donna, quindi forse dovrei almeno imparare a cucinare. E poi forse dovrei cercare di attirare un po’ più le attenzioni maschili, perché altrimenti rimango zitella, però, devo anche stare attenta a non passare per troia; e qua, il confine è breve. Sono una donna e quindi merito di stare sdraiata sulla neve, con il freddo che rallenta il pericoloso fluire delle mie ambizioni.

Rosa non ti preoccupare, non sei sola, tutte le donne sono sdraiate a fianco a te su quella bianca distesa e a causa del freddo non riusciamo nemmeno a girare la faccia, per renderci conto che ci hanno violato tutte. Rosa, tu ti danni l’anima, perché non ricordi, chi ha stuprato il tuo corpo e la presunzione che aveva nel volto, mentre lo faceva; Rosa, effettivamente c’è da dannarsi l’anima, perché anch’io mi sento perseguitata, umiliata, offesa, stuprata e anche processata come donna, da quando sono nata e succede da talmente tanto tempo, nella completa indifferenza di questa società, che io non saprei dire qual è il volto del mio carnefice e che espressione ha.

A Ottobre 2013 inizio un corso di formazione di cultura di genere. Che vuol dì? Me insegnano a esse ‘na donna? Ma io mica lo so, se voglio imparare. Nove mesi di lezioni, video, donne, docenti, che parlano ad un’aula di sole donne, che nella vita fanno le insegnanti, le magistrate, le avvocate, le bariste, le psicologhe, le mamme, le fidanzate, le donne. Dicono che esiste nel nostro Paese e in tutto il mondo “una cultura dello stupro”, cioè che la nostra cultura patriarcale e maschilista, predispone che “il maschile” prevarichi “il femminile”. Ci dicono anche, che la maggior parte degli studenti che si laureano sono donne, che le donne in percentuale ottengono i voti più alti, allo stesso tempo i dati ci mostrano che le donne hanno meno opportunità di lavoro, sono sottopagate rispetto agli uomini e in genere, non vengono assunte per posizioni di prestigio. I dati, però, dicono che le aziende che hanno al vertice almeno due donne, hanno un aumento di profitto del 18%.

Scopro inoltre che la violenza sulle donne è un fenomeno mondiale, che prescinde il Paese di provenienza e il livello socio-economico; mi stupisco nel sentire che la maggior parte delle violenze, circa l’80%, avviene tra le mura domestiche, da parte dei familiari e non da uno sconosciuto per strada. E a quelle parole, mi tornano in mente tutte le volte che ho sentito la frase “È pericoloso uscire di notte”; no, in Italia è 80 volte più pericoloso avere un compagno, un marito, uno zio o un padre. Probabilmente, durante la pausa tra una lezione e l’altra, abbiamo parlato anche dei dolori del ciclo e di smalti e unghie, ma si stava bene; saputa la verità, c’era da essere fiere di essere nate donne.

E mentre io frequento il corso, Rosa, più giovane di me, affronta il suo Processo, in realtà è sotto inchiesta l’uomo, che l’ha brutalmente violentata, ma a Rosa viene chiesto in che modo fosse vestita, se fosse consenziente all’atto brutale, se avesse per caso indotto lei, quel bravo ragazzo di una famiglia operaia ad ammazzarla, quasi. Il processo si teneva all’Aquila, nel Tribunale fatto di container di una città terremotata e dimenticata. L’Aquila come una donna: ci devastano, ci abbrutiscono, ci dilaniano, sventrano il nostro corpo e ci lasciano nella neve, quasi esangui.

Alla fine del corso ho lavorato per alcuni mesi, come operatrice in un Centro Antiviolenza, una grande casa di donne e bambini, in cui si dà ascolto al dolore e si ricostruisce quell’identità di donna, riconoscendo il suo inestimabile valore. Vorrei parlarvi di tutte le operatrici, che qui sarebbe impossibile citare nome per nome, ma che nei Centri Antiviolenza si sono riconosciute e hanno comunicato e agito il loro impegno politico. Potrei parlarvi di Chiara, Caterina, Raffaella e Francesca, le responsabili, quattro donne che gestivano quattro centri e li rendevano, insieme a tutte noi, dei luoghi di speranza, ascolto, confronto, scambio, cura, trasparenza, impegno, professionalità, diritti. Ho visto delle donne al potere, che non approfittavano dei privilegi della propria posizione, ma che hanno costituito e realizzato una gerarchia di responsabilità, in cui, anche l’ultima arrivata delle operatrici, veniva coinvolta con dignità e parità, prima di tutto in quanto donna.

Le donne accolte e ospiti, che nei Centri venivano a raccontare la loro storia, trovavano insieme a noi le parole per descrivere e denunciare violenze e speranze tradite e per ricordare chi erano e chi volevano diventare, prima di incontrare un uomo violento nella loro vita. Insieme a queste donne, ho trovato tante parole anche io, per la mia storia.

Alziamoci, Rosa, da questa neve rossa, che c’è tanto lavoro da fare, è un lavoro da donne. Scrolliamoci di dosso gli ultimi residui di quel timore di non essere importanti, di non avere le carte in regola, di non avere le capacità di pensare, creare, lavorare, desiderare, scegliere, esistere. Le donne sono più della metà della popolazione di questo Paese, ma vengono trattate come una minoranza.

Io voglio imparare ad esigere il rispetto della mia identità di genere e dei miei diritti e mi limiterei nel dire solo, che vorrei che si interrompesse l’eccidio di genere, che colpisce noi donne. Non solo pretendo che le donne non vengano più uccise, maltrattate, picchiate, umiliate, svalorizzate, segregate, torturate, violentate, violate, costrette. Voglio anche che le donne, libere da ogni oppressione, abbiano la possibilità di scegliere e realizzare il meglio per la propria vita.  Non avrei mai immaginato, che le mie parole di donna fossero il cambiamento che volevo mettere al mondo; e se mai mettessi al mondo anche una figlia, sarebbe oggi una libera scelta, forte delle mie speranze.

Laura – Associazione 8marzo2012, Tivoli

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immagine di Hannah Claus,  cloud

Un commento su “dal maschisochismo all’identità di genere

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Questa voce è stata pubblicata il 20 ottobre 2014 da in 8 marzo, appuntamenti, conosciamoci, donne, femminicidio, femminismo, politica, uomini, violenza con tag .

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