laboratorio donnae

generare oggi

Paula Modersohn-Becker

di Marisa Forcina, Docente di Storia delle dottrine politiche, Università di Lecce.

Ho trovato questo scritto di Marisa nel “pozzo” della rete e mi ha colpito per la sua attualità. E’ stata lei a ricordarmi che l’aveva pensato per il Convegno dell’Udi Generare oggi tra precarietà e futuro a cui l’avevo invitata nel 2005. Il testo, poi ampliato,  è stato pubblicato in Rappresentazioni politiche della differenza, Franco Angeli 2009

Il diritto alla vita è, innegabilmente, riconosciuto come il più importante tra i bisogni umani.  E tuttavia, come ci ha insegnato Simone Weil, la nozione di obbligo, soggettivo e comune, sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata, per il semplice fatto che l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, ma dagli altri, che si riconoscono, nei confronti di chi quel diritto reclama, obbligati al suo riconoscimento[1]. Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale niente; è indispensabile perché ci sia un diritto, il riconoscimento non solo normativo, ma effettivo e sociale di quel diritto, ossia che gli altri si riconoscano obbligati verso chi è portatore di quel diritto.

Questa premessa teorica è indispensabile per capire perché è indispensabile, da parte di tutti noi, riconoscere e sentirci obbligati a realizzare il diritto alla vita, e con questa sentirci obbligati a interrogarci su cosa significhi, oggi, generare. Con il diritto alla vita dovrebbe essere connesso anche il diritto a mettere al mondo la vita stessa e a conservarla, e per questo è necessaria una cultura che esiga servizi, che denunci inadempienze e soprattutto che sia in grado di generare nuove modalità relazionali e un senso adeguato di qualità della vita.

 E’ indispensabile, nel momento presente, risalire alle cause di quella strana contraddizione che ci mette sotto gli occhi statistiche in cui nascite, con non certo facili interventi nelle fecondazioni  o negli svolgimenti della gravidanza, aumentano sempre di più, e, in parallelo, aumentano sempre di più gli infanticidi; anzi, questi ultimi hanno registrato, negli ultimi dieci anni, un incremento del 40% rispetto alla media degli omicidi, grosso modo rimasta invariata. I dati contraddittori esplicitano una situazione sociale e culturale dove non c’è più alcuna distinzione tra  il bambino atteso o il bambino nato, nel senso che ambedue sembrano essere rappresentabili come un qualunque altro prodotto, che comporta costi da erogare soggettivamente. Oppure, ancora come qualunque altro prodotto che non ha un costo o valore  può essere gratuitamente cestinato, in nome di un presunto “ordine” che nella vita dovrebbe essere realizzato.

Si sta affermando sempre di più un modello di generare che sembra essere lo specchio della produzione capitalistica, in grado di programmare produzioni, di produrre in qualsiasi condizione e anche di abbattere gli esuberi di produzione. Ma, a differenza del modello capitalistico, che comunque vede una partecipazione sociale nella  produzione utile e in quella eccedente, per quanto riguarda la generazione tutto avviene nell’orizzonte di una presunta, presupposta o arbitraria libera scelta privata, che ritiene di vivere lo sviluppo o meno di una gravidanza come se fosse il frutto di una propria libera scelta, e il bambino, desiderato e da far nascere a ogni costo, come se fosse il prodotto di un proprio desiderio agito e, al contrario, il bambino abbandonato, o il feto abortito, come se fosse l’oggetto di un gesto di una crudele, privata decisione. Sottolineo il fatto che la scelta va a configurarsi come questione privata, e che questa non necessariamente coincide con la scelta delle donne, anche se questo dato tende ad essere enfatizzato: infatti, il corpo gravido è un corpo femminile e anche all’opposto, il gesto drammatico dell’abbandono del proprio figlio avviene per mano femminile. Si tratta di scelte private, e non di scelte relative al genere femminile, scelte frutto di isolamento e di abbandono e non scelte in cui i veri soggetti della scelta sarebbero le donne. Scelte private proprio nel senso etimologico del termine, ossia scelte prive di ogni politica e socialità, prive di mondo; insomma, prive di vita.  Si tratta inoltre di scelte dovute a una cultura creata sul modello di impresa individuale, dove è prioritario il profitto, espresso in termini di godimento proprio, una cultura che è alimentata dalla solitudine intesa come valore, e da una idea di privacy intesa come un non-dover-rendere-conto. L’inconscio si nutre dell’orizzonte della cultura occidentale, che ha fatto sue tutte le forme del capitalismo, e dove persino il corpo, simulando l’impresa, programma il prodotto, i costi, i benefici; il tutto in relazione all’immagine, anch’essa da scandire con opportune operazioni di marketing differite nel tempo.

In tutto questo, sessualità e desiderio, godimento di quello che accade, diventano figure residuali e forme subalterne rispetto alla continua ricerca di valorizzazione delle risorse, che differiscono poco nel fatto di essere risorse economiche e monetarie o, come vengono chiamate persino nelle istituzioni, risorse umane. Persino quelle stesse istituzioni preposte all’elaborazione di una cultura superiore, come le università, utilizzano il linguaggio del denaro e quantificano ed equiparano competenze a crediti.

Le contraddizioni che evidenziano i dati relativi alle nascite dicono esplicitamente che questo ambito ormai è stato assorbito nell’ambito dell’economico e che è completamente privo di una partecipazione sociale, di una cultura sociale e politica della nascita e di una cultura politica del desiderio.

D’altra parte, tutta la cultura politica della modernità si basa sulla rimozione politica del desiderio e del suo valore. Tutti ricordiamo le famose espressioni di Hobbes che sono al fondamento del giusnaturalismo e del moderno contratto sociale. Egli, sostenendo che nemmeno “sul desiderio di gloria non si può stabilire nessuna società, né di molti uomini, né di molta durata” aveva consegnato l’origine della moderna società politica a quell’assunto fondamentale  che, espungendo da sé ogni desiderio, anche quello buono, anche quello della gloria, poneva le basi del moderno isolazionismo dei soggetti, dove “ciascuno vale per quello che può operare senza l’aiuto degli altri”, perché anche quando vi fosse “qualche buona ragione di gloriarsi, non gliene viene alcun giovamento dalla società con gli altri uomini”[2]. La ragione per cui la politica, proprio nel suo fondamento moderno, doveva espellere da sé il desiderio, era dovuta al fatto che questo era un dato costitutivo dello stato naturale, dove il timore reciproco era dovuto, appunto, al fatto che nello stato di natura “era lecito a chiunque fare qualunque cosa egli volesse e potesse”[3]. Era, in definitiva, la presa d’atto che l’assecondare il proprio desiderio, alimentava inevitabilmente un altro desiderio: lo “scambievole desiderio di nuocersi”[4]. Lo stato e la sovranità moderna, come tutti sappiamo nasce infatti con la rinuncia al desiderio proprio e, come si esprimeva Hobbes, con “la rinuncia al proprio diritto di opporre resistenza”[5]. Se il desiderio apparteneva all’ordine naturale, nell’ordine politico avrebbe dovuto scomparire, in quanto tale. Il Settecento stentò a rassegnarsi a questa nuova modalità su cui nasceva il nuovo contratto sociale e cercò di rivalutare le passioni, almeno per quanto concerneva i contratti e i rapporti economici. Le passioni, intese proprio come vizi privati che si trasformavano in pubbliche virtù, diedero il fondamento all’economia politica classica, intesa proprio, a cominciare da Mandeville, come frutto di un desiderio individuale, essenzialmente utile alla società[6]. Ma poi la Rivoluzione Francese, pensando di edificare il nuovo avvento trasformativo della politica e dei rapporti sociali, con la proclamazione del cittadino e dei suoi diritti, fece piazza pulita di ogni istanza  e di ogni desiderio soggettivo che avrebbero dovuto essere esauditi nella universalità dei diritti. La nuova politica avrebbe restituito come un diritto ogni appello legittimo fatto dal cittadino e ciò sarebbe avvenuto sulla base di una programmazione oggettiva, differenziata nel tempo e che avrebbe visto diritti civili e politici come diritti di prima generazione e poi diritti economici, sociali, e culturali come diritti di seconda generazione e poi ancora quelli di terza[7] e infine di quarta generazione[8]. Ad essere capace di generare oggi sembra essere solo la politica delle norme e delle leggi, che si strutturano sempre di più sulla vita intima degli esseri umani, che garantiti in ogni aspetto, non dovrebbero più desiderare niente. Ma le donne, con una cittadinanza ancora oggi da realizzare pienamente, vedi questione delle quote ecc., con dei diritti acquisiti solo nella “terza generazione”, erano state già da troppo tempo addestrate a capire che non era “politicamente corretto” esprimere il proprio desiderio, a cominciare da quello più naturale, quello sessuale.

La rimozione del desiderio come energia libera ha comportato una programmazione anche dei corpi produttivi che hanno imparato a sterilizzarsi, espellendo da sé ogni energia fantasmatica e pulsionale e hanno appreso invece a essere diretti da politiche massificanti, e che solo in apparenza erano pronte ad esaltare la singolarità di un corpo bello da raggiungere con rifacimenti plastici più o meno individualmente perseguiti. In questo modo le modalità piccolo borghesi di presentazione del sé, abbandonando i propri valori collettivi della pulizia e dell’ordine, della misura e della religione,  hanno imparato a mimare i valori tradizionalmente aristocratici del sangue e della nascita, della sfida e della seduzione. Tanto più che i legami di sangue erano contemporaneamente percepiti come fondanti anche nelle comunità più basse, nelle comunità malavitose come in quelle più arcaiche.

Il figlio “a tutti i costi” è il prodotto di queste modalità che non sono affatto espressione di un desiderio di cura e rapporto con un altro che cresce grazie al nostro aiuto e contributo, ma sono piuttosto il frutto di un bisogno pervasivo: la scena è impregnata da un sé bisognoso di estendersi nel proprio prolungamento che sarà in grado di realizzare ogni altra attesa e in grado di rappresentare il proprio benessere; si tratta di un bisogno intenso al punto che lo si esige ad ogni costo. Si tratta di un desiderio non solo femminile, ma di un desiderio indotto e per questo, richiesto dalle donne. In questo avrebbe ragione Baudrillard quando afferma: “Se fino ad oggi era stato insegnato alle donne a non chiedere niente, ora non viene forse insegnato loro a chiedere tutto per non desiderare niente? Tutto il continente nero è decodificato dal godimento?”[9] All’opposto, il figlio non voluto riempie la scena di sé e sembra non rendere possibile nessuna prosecuzione di vita. La cosa più semplice è allora negarne l’esistenza, a cominciare dalla percezione della realtà stessa e dal fatto stesso; e infatti, l’analisi clinica di alcuni casi evidenzia che, talvolta, donne abusate o stuprate negano persino la propria gravidanza accorgendosene tra il quinto e il nono mese e ricorrendo, in seguito, al gesto estremo di un abbandono o dell’omicidio del proprio figlio. Il riconoscimento della mancanza di desiderio avviene allora nella modalità della mancanza di riconoscimento della gravidanza, e anche del suo “prodotto”. Con la stessa modalità avviene che, al contrario, il “desiderio” del figlio come “prodotto” a tutti i costi dal proprio corpo, genera un riconoscimento del sé, che nella forma della sua gemmazione si prolunga nel tempo e nello spazio, come forma di garanzia della propria esistenza e della propria possibilità di eternità. E’ questa la forma di seduzione senza desiderio dove la duplicazione del sé, attraverso la trasmissione del codice genetico, rassicura, perché, come nel clone, escludendo ogni alterità non pone domande, non chiede, non mette in questione, non inizia niente di nuovo, ma prosegue semplicemente, nella sua rizomatica e ripetitiva omogeneità, che non ruberà mai alcun potere.

Si ha così una rassicurazione di potere che, nella sua totale aseduttività, è in grado di sedurre; come è stato detto delle repliche di certi discorsi femministi che, nella loro totale aseduttività trovano, nella trasmissione di un codice, una sorta di seduzione omosessuale[10]; come è stato detto per “l’alta fedeltà” che nella ossessiva ricerca codificata di perfezione nella riproduzione musicale, si ferma a se stessa non sapendo più dove esiste il reale dell’ascolto, dove esiste il suo cominciamento e dove l’ascolto finisce, se nella produzione “dal vivo”, magari disturbata da altri piccolissimi contesti acustici, o nella riproduzione di “alta fedeltà” totalmente “pura”[11], ma che non “esiste” nella realtà. A viva voce o nell’esistenza altamente fedele della sua riproduzione tecnologica sono modalità totalmente differenti.

 Così la riproduzione altamente fedele come nelle promesse della procreazione assistita, mima la viva nascita nella viva vita.

 Baudrillard, con espressione efficace, ha detto che  l’estetizzazione della realtà postmoderna si pone come una forma di anestetizzazione preventiva[12], ed è vero, perché riducendo ogni contenuto all’aspetto formale ed estetico la nostra società non riesce a sentire altri sensi e altre dimensioni. Per essere più precisi, nel caso della nascita, l’ipertrofia enfatica con cui si rappresentano pance gravide che fanno pubblicità alla purezza di un’acqua in bottiglia, o le nascite “assistite”, con il loro numero esagerato di passeggini, biberons, cullette, ecc, riportate dai media nei plurimi accessori, come modello esteticamente felice di ottima organizzazione domestica, sono segno rovesciato di una immunizzazione di fronte alle nascite reali e ai parti naturali di giovani donne che si aprono a nuove vite. Nascite, queste, inserite nel quadro cieco dell’esistenza che ripete se stessa, quelle invece inserite nell’alone di grandezza di chi realizza ciò che vuole.

Si tratta di percezioni completamente differenti come differenti sono le modalità culturali relative all’ esistenza e quelle relative alla vita.

La nostra cultura ha elaborato filosoficamente il senso dell’esistenza, ma non si è mai sufficientemente fermata a pensare che cosa sia la vita. Si è parlato di forme dell’esistenza: estetica, etica, religiosa, ma le forme non ci restituivano l’essenza; anzi, come nella formula sartriana “l’esistenza precede l’essenza”, significa che noi non siamo scelti, attesi, predeterminati, al momento del nostro apparire nel mondo, ma che creiamo il nostro destino con le nostre libere scelte; si è parlato dell’esistenza come la modalità dell’essere nel mondo (Dasein) attraverso l’abbandono. Si è parlato di un’esistenza che non è l’essere, questo semmai lo conoscevamo e l’abbiamo perduto, perché condannati alla “cura” e, in definitiva, alla morte. Si è parlato di una esistenza filosoficamente spiegata e spiegabile come rifiuto dell’esistenza banale, e opzione verso la conquista di un mondo sempre riperduto, perché è impossibile attingere all’origine che, in definitiva, è il nulla. E proprio questo andare indietro, paradossalmente fino al nulla, ha fatto sì che l’inizio della vita umana fosse non solo filosoficamente, ma anche scientificamente e politicamente ridefinito in un inizio sempre più indietro nel tempo e prioritario rispetto a ogni nascita reale e persino formazione genetica. Allo stesso tempo ogni nascita vera e ogni bambino realmente partorito, potevano essere ascritti, in quello stesso tipo di cultura, a una dimensione che si richiamava al nulla e alla “gettatezza” nell’esistenza. La filosofia non è senza colpe se ha permesso, attraverso una serie di passaggi inconsci o dell’immaginario, che questa “gettatezza” si traducesse nel gettare milioni di ebrei nei forni crematori e non sappiamo quanti bambini nella morte dei cassonetti, nella morte della fame, nella morte dello sfruttamento e dell’abiezione.

 La biopolitica, come politica che progetta non più l’essere insieme, ma la vita e la morte dei corpi è l’erede di queste concezioni.

Oggi, le giovani donne mi sembra stiano recuperando il senso di un generare come frutto del desiderio proprio e non di una biopolitica che ha più o meno imposto un differimento nel tempo della presenza di un figlio. Vivo in una cittadina di provincia che, come in ogni provincialismo, fa suoi, con un tempismo quasi esagerato, i cambiamenti più appariscenti: dall’ombelico scoperto, esibizione inconsapevole e dal gusto discutibile di un legame col materno e con la vita, alle nascite di bambini da parte di giovani ragazze single, alle nascite di bambini in giovani coppie quasi trentenni che non vivono il figlio come incidente o come interruzione del proprio progetto di vita. Tutto questo “ fa tendenza” come si dice. Bisognerebbe intanto capire che tutto ciò verso cui tende una società non si “fa”, ma si “è”. Proprio in quel “fa” si nasconde, infatti, il rischio della manipolazione; il rischio è nascosto in un fare indotto che producendo progresso produce un regresso, e un impoverimento del capire. Difficilmente compresa nella passività del fare è infatti ogni creatività.

Ritornando a quanto detto in premessa, è nostro obbligo, è compito della cultura, della filosofia e della politica riscoprire il senso della categoria della natalità, così come, d’altra parte è già stato espresso, non a caso da una donna, non da una madre, ma da una pensatrice come Hannah Arendt (che peraltro non ebbe mai figli). La sua proposta di una filosofia della nascita non deve trasformarsi in una nuova formula dell’accudimento, traducibile in una nuova religione della politica, tutt’altro.

Riscoprire il senso e il valore della nascita, farne una categoria culturale, significa aprirsi all’inatteso e alla non ripetizione dell’identico. Questo può salvarci persino dall’arrogante pretesa di saper dominare sempre gli eventi, riportandoli indietro e facendo affogare ogni novità nella presa mortifera del nostro egoismo. La libertà, allora, non sarà solo libertà di fare qualche cosa o libertà dal bisogno, ma libertà politica come possibile spontanea iniziativa che dà avvio a un processo che altrimenti non avrebbe avuto corso, e che invece trova il suo avvio nella reale e concreta nascita di ognuno. Ciò è possibile semplicemente perché, come sosteneva H. Arendt “ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualche cosa di nuovo nella sua unicità”[13]

La consapevolezza che ogni individuo è unico e che la sua esistenza è nel “nuovo inizio” che ognuno di noi è, ci introduce in una nuova possibilità di prendere consapevolezza dell’autonomia e della differenza. Aprirsi alla differenza vuol dire rendere concretamente possibile una nuova base per la democrazia, perché la differenza è pluralità e la democrazia è tale solo se è in grado di tenere conto della pluralità delle presenze, ossia delle vite.

Ogni vita è un inizio che, come ogni inizio, ci libera da molte cose: non solo dalla fine definitiva, ma dalla ripetizione mortifera, dall’uniformità, dal conformismo, dalla violenza dei fondamentalismi, che si ripiegano sulla replica di alcuni principi ritenuti fondanti, perché solo l’inizio si contrappone a ogni determinismo, anche a quello del totalitarismo.

Una filosofia della nascita potrebbe avere socialmente, se compresa pienamente, la stessa portata eversiva di quella che fu espressa religiosamente come il “natale” di chi venne non a distruggere la legge, ma a rinnovare la legge. Un rinnovamento, un riconoscimento nuovo che muove dal pensiero filosofico sarebbe un rinnovo radicale, un rinnovo che va alla radice, alla vita, alla nascita di ogni nuovo individuo che va assolutamente salvata. La stessa radicalità che è ogni nuovo inizio, ogni azione politica e ogni parola detta, ogni strada intrapresa, ogni bambino che nasce consente un accesso non solo nel mondo dei significati e del dialogo comunicativo, ma anche nel mondo delle promesse realizzate. Non a caso il Natale realizzava la promessa e inaugurava la vita e l’accesso ad un mondo nuovo: “Io sono la porta, chi entra attraverso me sarà salvo; andrà dentro e fuori e troverà da mangiare”[14]. Con l’inizio come con la nascita si ha l’accesso al mondo, a quello dei diritti e a quello politico, ma non per restare arroccati nella garanzia di una eterna tutela, o consegnati all’impotenza altrettanto garantita dalle miserie umane e poi della morte; con la nascita si entra nella vita e ogni vita scongiura la fine della storia: “La storia non è finita. Ogni fine contiene necessariamente un nuovo inizio. E’ la promessa l’unico messaggio che la fine annuncia e consegna”[15]. La fine oscena dei bambini partoriti e abbandonati nei cassonetti o altrove, reclama il nostro obbligo a realizzare il loro diritto ad essere accolti da madri non disperate dalla solitudine e da una società non accecata dalle proprie ingordigie. E’ la nostra promessa perché ci sia un nuovo inizio, un inizio che “non è come l’inizio del mondo, l’inizio di qualcosa, ma di qualcuno che è a sua volta un iniziatore”[16] .

Arendtianamente consapevoli che “ogni inizio è un miracolo”[17], diciamo che ogni nascita è un miracolo, non perché realizza chissà quali preghiere e aspettative, ma perché è l’inatteso e l’imprevedibile della possibilità che entra nel mondo, ossia è l’entrata nel mondo della libertà.

In quanto cittadini e in quanto esseri umani abbiamo l’obbligo di difendere e di tutelare questa libertà, con tutti i mezzi a nostra disposizione.

[1] Cfr. S. Weil, La prima radice, ed. di Comunità, Milano 1980, p.9.

[2] Th. Hobbes,  Elementi filosofici sul cittadino, trad. a cura di Norberto Bobbio, UTET, Torino 1948, I-2 e vedi n. 1.

[3] Ivi, I, 10 12 vedi vicino nota 1

[4] Ivi, I, 3

[5] Ivi, V, 11.

[6] Cfr. B. Mandeville, La favola delle api,a cura di Tito Magri,Laterza, Roma-Bari 1997

[7] Di terza generazione sono stati considerati i diritti di solidarietà, ossia quelli in cui i destinatari non sono i singoli individui, ma che coinvolgono la collettività. Si tratta del diritto all’autodeterminazione dei popoli, alla pace, allo sviluppo, al controllo delle risorse naturali, alla difesa ambientale, all’ecologia. In genere sono stati compresi nei diritti di terza generazione anche quelli che tutelano categorie di individui particolarmente deboli ed esposte. Le donne e i bambini sono state considerate tra questi.

[8] Ancora non definiti pienamente dalle norme sono i diritti di quarta generazione , ossia quelli relativi alle manipolazioni genetiche, quelli problematizzati dalla bioetica e dalle nuove tecnologie di comunicazione. Si tratta di diritti nati proprio successivamente all’utilizzo delle nuove tecnologie.

[9] J. Baudrillard, Della seduzione, trad. it. a cura di Pina Lalli, Cappelli, Bologna 1980, p.39.

[10] cfr.Ivi, p.67

[11] cfr.Ivi, p.47

[12] Cfr. R. Esposito, Bios, Torino 2004, p.46.

[13]H. Arendt, La vita della mente, .

[14] Giovanni,10,9

[15] H. Arendt, Le rigini del totalitarismo, p.656

[16] H. Arendt, Vita activa, p.129

[17] Ivi.

immagine di Paula Modersohn-Becker

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Questa voce è stata pubblicata il 14 gennaio 2016 da in appuntamenti, donne, ricerca con tag .

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