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#194: complici di legalità

1982219_10153915309320422_1820343217_nRestituzione dell’ incontro C’ERA UNA VOLTA QUANDO NON C’ERA, prima e dopo la legge 194 promosso l’8marzo dall’associazione Tilak di Monte Sant’Angelo e Donne della Capitanata nell’ambito della Campagna #194 maipiùclandestine a cui aderiscono

 Il corpo non-detto. Il corpo non-visto. Il corpo non-vissuto, di Annarita Del Vecchio

Se non  lo ascolto, allora non parla. Se non lo vedo, allora non esiste e se non esiste non posso viverlo.

Vivere l’esperienza del proprio corpo significa avere la possibilità e la capacità di porsi in ascolto con un corpo che ha memoria, un corpo che parla, un corpo che non mente.

Uscire dal meccanicismo e automatizzazione non è cosa facile, l’esperienza del sentire non è cosa da poco.

Abbiamo imparato a vivere in una schizofrenia costante(corpo-mente), perché ce l’hanno insegnato, perché è più comodo, perché pare che sia più facile da controllare (in tutti i sensi). Abbiamo diviso, parcellizzato separato ciò che in realtà è unità indissolubile. Abbiamo deciso, ad un certo punto, che era più comodo pensare rispetto alle singole parti, agire sui singoli organi, curare i singoli sintomi.

Ci siamo dimenticati/e dei nostri corpi e qualcun altro/a ha cominciato a farlo per noi.

Ci portiamo dietro un corpo costruito sulla dimenticanza, ci portiamo dietro un non-senso che spesso ci lancia nel baratro nell’inadeguatezza, lasciando che qualcun altro/a dica e faccia per noi.

Perché vi parlo di questo?

Perché questa è la condizione generale in cui veniamo al mondo e la modalità con cui ci muoviamo nel mondo.

Perché tale condizione diventa ancora più dolorosa e complessa quando si tratta dei corpi delle donne, assumendo i toni di una vera e propria emergenza quando il corpo di una donna diventa crocevia di strumentalizzazioni, ideologie, non-esperienze fatte di parole non-incarnate.

Ed ecco che ti ritrovi a vivere una  solitudine disumana, un giudizio atavico, un silenzio assordante.

Questo è quello che sta accadendo oggi rispetto alla 194/78.  Questo è quello che si sta verificando nei consultori, negli ospedali, nei luoghi dove si decide.

L’8 marzo a Monte Sant’Angelo ci siamo incontrate per parlarne,  insieme abbiamo riflettuto sulla  necessità di  occupare uno spazio pubblico per mettere le “nostre parole” a quello che sta accadendo, senza delegare, prendendoci la nostra responsabilità.

Ed è per questo che l’8 marzo, abbiamo aperto con il racconto di una donna. Stefania che ci ha fatto dono delle sue parole per dire quello che ha significato per lei “accompagnare” un’altra donna nella sua scelta. Stefania che nel suo racconto si definisce “complice di legalità”. Stefania che  con le sue parole incarnate parla di Anna, di Silvia e di tutte quelle donne che da sole o insieme ad altre donne si ri-trovano ad essere complici di legalità. Complici di una legalità che sembra un reato, e che, come le cose clandestine, non si consuma alla luce del sole” come dice Stefania nel racconto che segue.

PDF TESTO

LA NUMERO 4 di  Stefania Marrone, Bottega degli Apocrifi Manfredonia. 

Auguri.

La numero 4 ha proprio voglia di festeggiare oggi. Ha voglia di sole. Di quel sole che fa crescere le mimose tonde e gialle, che ti scalda la faccia e che ti entra nello stomaco. Ha voglia di camminare nel sole con le spalle dritte e la faccia alta. Camminare, e basta. Mettere un passo dietro l’altro e seguire i suoi piedi, che pare abbiano voglia di un caffè a campo dei fiori.

Si, una turista a Roma.

E’ andata bene alla fine, l’oroscopo lo diceva che la prima parte dell’anno sarebbe stata eccellente, che sarebbe stato un periodo facile, che tutte le difficoltà si sarebbero appianate davanti a lei … così per venti giorni ha anche pensato che il ciclo alla fine sarebbe arrivato.

Quando l’oroscopo diceva che avrebbe avuto facilmente la risposta che aspettava, le stava probabilmente suggerendo di comprare un test di gravidanza in farmacia invece di andare ogni volta in bagno con le palpitazioni.

Nei film quando si fa il test c’è il probabile padre in fibrillazione, o almeno un’amica saggia, comprensiva,  che sa dire la cosa giusta. La numero 4 spegne il telefono e si chiude in bagno.

In farmacia sono arrivati  i test nuovi: non deve nemmeno decodificare i colori: è scritto lì, in stampatello maiuscolo, per non sbagliare come succede con gli indirizzi di posta elettronica. INCINTA.

Si siede sul water. Una laurea brillante  non basta a convincerla del significato di quello che legge. Ci vuole una sigaretta, e un’altra, e un’altra, e un’altra, e un’altra finché senza ancora alzarsi dal water decide che comunque lei smetterà di fumare.

Ha una rete solida intorno: il suo medico di famiglia va a pesca con suo padre, la sua ginecologa è la cognata di sua zia, al Consultorio di Manfredonia c’è una sua cara amica d’infanzia. Deve Scappare. Lontano.

Comincia a chiedere a internet notizie sul suo futuro: le pare di capire che Foggia, insomma, in ospedale ci sono parecchi medici obiettori, tipo 18 su 25. Ma non bisogna disperare, nulla è irreversibile, nemmeno l’obiezione di coscienza; può darsi che un medico che obietta in un ospedale pubblico, non obietti più in un ambulatorio privato. Magari obietta i giorni pari, e allora basterebbe prendere appuntamento un giorno dispari, e pagare. Pagare? Ma senza dirlo a nessuno dove prende i soldi? E il tizio, il padre? A nessuno. E i regali della laurea? Spesi tutti per pagarsi l’affitto durante la pratica gratuita a Bologna, finché finita la pratica finito il lavoro. Menomale che su internet puoi trovare tutto. Magari ecco si, non Foggia ma Cerignola, però con una lista d’attesa di cinque mesi. Ma come cinque? Per forza! Ci vanno a finire anche tutti gli interventi di Foggia, no? E i tempi di attesa si allungano. Si, ma il limite massimo non è di tre mesi? Non ne è nemmeno più sicura in effetti, non si è mai occupata di queste cose. Solo che il momento in cui ne hai bisogno è veramente il momento peggiore per cominciare ad occuparsene.

Io in questa storia ci entro a questo punto, con una telefonata e successivo caffè in cui un’amica con lo sguardo distratto mi rovescia addosso tutte queste informazioni e per i primi minuti penso che non stia davvero parlando di sé.

Perché io? Niente di personale pare. Mi dice che ha scelto me anche se siamo amiche, perché alla fine io sono un’estranea. Estranea alla sua famiglia, ai suoi amici, alle sue frequentazioni e soprattutto estranea alla città, dove vivo da poco più di due anni.

COMPLICE. È questa la sensazione, si. Complice di una legalità che sembra un reato, e che, come le cose clandestine, non si consuma alla luce del sole.

E’ ancora notte e sento il freddo di chi si è svegliato troppo presto. Lei non mi dice buongiorno, nemmeno ciao: apre la portiera della mia macchina, si siede,  “grazie”.

Manfredonia – Roma in quattro ore. Senza soste, senza parole, senza nemmeno cambiare il cd di Daniele Silvestri che fa il giro completo nello stereo per cinque volte e mezzo perché lei ha paura che nel tempo che impiegherebbe a toglierlo e infilarne un altro io potrei farle delle domande.

L’appuntamento al consultorio è alle dieci, in via de Frentani, che non è quello vicino a casa di Silvia.

Silvia è un’altra complice di legalità, coinvolta quando scopro che per presentarsi in un ospedale pubblico a Roma per un’interruzione di gravidanza è necessario passare per il consultorio di riferimento del proprio quartiere.

Ci serve una domiciliazione. Ci serve un’amica. La chiamo e le rovescio addosso tutte le informazioni e per i primi minuti lei pensa che io stia parlando di me, poi mi dice che nel consultorio del suo quartiere il  medico obiettore rifiuta anche di dare la pillola del giorno dopo, a meno che non ti presenti con un avvocato, “se andiamo lì la fanno a pezzi – mi dice – mi informo. Troviamo prima il consultorio e poi vedrai che un domicilio viene fuori.”

Quella mattina alle 7 in via Frentani è ancora buio, abbiamo trovato il posto, così ci restano tre ore di tempo, un po’ d’aria, due passi, ma una signora che sta facendo le pulizie dentro, viene verso di noi e ci apre: “ Se dovete venì qua’ è meglio che entrate mo’. Alle sette e mezza arrivano quelli de la vita, che te vie’ voglia de morì solo che li vedi. Le luci le teniamo spente e i dottori entrano da dietro”.

Il corridoio del consultorio più umano della capitale  è stretto, lungo, senza finestre e già affollato. Compiliamo il foglio con il domicilio di Adriana, un’amica di Silvia, complice anche lei.

Alle sette e mezza in punto quelli della vita accendono i megafoni. “Se non rispettate la vita non meritate rispetto!” Una ragazza più avanti s’infila le cuffie dell’Ipod e accende la musica. Tutte quelle che ce le hanno fanno lo stesso, la ragazza di fianco a me accorgendosi che siamo sprovviste ci chiede “chi di voi?” Io ho un momento di impasse ma la numero 4 è lucida, pronta. “io” risponde. La ragazza si siede al mio posto, le da uno dei suoi auricolari e alza il volume al massimo. Musica Dance. Lei sembra gradire, chiude gli occhi e si ritrova al centro della pista.

Per la visita medica ci chiamano alle due e mezza.

Poi ci mettiamo in fila davanti alla stanza della psicologa. Sappiamo che quella è la parte più difficile; la numero 4 ha la faccia di porcellana: fredda, pallida e incapace di cambiare espressione.

Quando la signora che sentivamo piangere da fuori apre  la porta ed esce di corsa, lei si alza, guarda la psicologa dentro e dice “tocca a me credo”.

Entra con quella faccia lì, e con la stessa esce dopo quaranta minuti. Ha superato l’esame, ora dobbiamo tornare in fila dal medico, per avere l’appuntamento in ospedale.

“Il 30 marzo, alle sei e mezza”

E’ il 31 gennaio, e siamo più o meno a 30 giorni, il 28 febbraio saranno 58, e il 30 marzo 88…e, si, il limite massimo è di 90 giorni, siamo sicure.

“hai fame? Silvia ha detto di chiamarla se cambiamo idea e vogliamo dormire da lei” Partiamo subito.

Roma – Manfredonia. Al ritorno ci vogliono sei ore perché becchiamo il traffico del pomeriggio.

E Daniele Silvesti fa il giro completo 9 volte. Quando sta per ricominciare, finalmente il cartello bianco “Manfredonia”. Lei spegne lo stereo.

“altri 58 giorni così. Io divento matta”

“ Dai, dobbiamo andare al cinema, a teatro, fare un sacco di cose. Tu chiama quando vuoi”

L’ho chiamata io qualche giorno dopo, ma era l’8 marzo e aveva una pizza con le amiche, o un compleanno di un nipote, o impegni di lavoro, o raduni di famiglia, fino a 56 giorni dopo quando arriva un sms: “a che ora domani pomeriggio?”

“passo alle sei”

Ho tolto il cd di Daniele Silvestri dalla macchina. Parliamo. Lei parla.

In questi due mesi è stata bene, ha lavorato molto, in ufficio tutto regolare, nausea un solo giorno, ma forse è stata più una questione psicologica. E’ andata al cinema quasi tutte le settimane, film americani un po’ banali, meglio quelli d’azione, o d’animazione, il cinema italiano boh… è sempre triste e alla fine niente di che;  due dei suoi nipoti hanno festeggiato il compleanno, lei ha aiutato sua madre a fare le torte, quelle cose complicate con la pasta di zucchero, che devi fare attenzione anche alla temperatura dell’impasto. Ci puoi fare tutte le forme, tutti i disegni, solo che con tutti quei coloranti anche se sono commestibili lei comunque non li mangerebbe. Silvia ci ha preparato la cena e ha già messo le lenzuola al divanoletto. Dormiamo insieme la numero 4 e io, sono a pezzi e domattina la sveglia è alle cinque. Spengo la luce

“ non ti ho chiamata perché solo tu sai di questa cosa.  E questa cosa per me…come facevo? come faccio? La psicologa mi ha detto di usare questo tempo per elaborare il lutto, perché comunque è un lutto, perché sono madre per un periodo, fino a domani. Ma io non posso, tu lo sai. Chi mi crede se glielo dico? A chi glielo dico?”

“Accendiamo la luce?”

“ No, dormiamo. Dormiamo per piacere, così il clistere fa effetto”

Al Gemelli, alle sei e un quarto è notte e fa freddo. Reparto di Ginecologia-pianificazione familiare.

Domandiamo a due infermiere in pausa sigaretta, sono gentili nonostante l’ora: ginecologia è al terzo piano.

Usciamo dall’ascensore, lì è più caldo, ma non c’è nessuna porta con su scritto pianificazione familiare, e nemmeno il nome del medico che le hanno segnato sul foglio.

Scendiamo e ci sono ancora le due infermiere in pausa, torno da loro, mostro il foglio di prenotazione e quando leggono capiscono “ ah in quel postaccio dovete annà? Che schifo. No quello è sopra all’ultimo piano.

L’ultimo piano dell’ascensore segna 5, ma noi dobbiamo arrivare al sesto. Non ci arriva l’ascensore lassù, e le scale si stringono, e sul pianerottolo è di nuovo freddo. Ci sono due sedie e 11 persone: cinque accompagnate da complici e una da sola, e tra i complici ci sono anche una madre e un uomo, che sembra quello più spaventato di tutti.

Non c’è  un ingresso in reparto, c’è una porta bianca di ferro scrostata in molti punti, che ha nella parte superiore un quadrato di vetro da cui si può vedere cosa accade di fuori.

Chiamano le donne una a una, per numero; quando sua figlia entra la madre prende la corona del rosario dalla borsa e quando chiamano la sua compagna l’uomo chiede di entrare, ma nessuno può entrare lì dentro, no, nemmeno dopo l’intervento. Si può solo aspettare lì sul pianerottolo e quando da dentro si ricordano di accenderci la luce scopriamo che il neon va a intermittenza perché sta per fulminarsi. La madre offre un cioccolatino ciascuno. L’uomo ci chiede se vogliamo un caffè e si allontana al bar. Lascia a ognuna di noi il suo numero di cellulare se dovesse uscire qualcuno o cercarlo, ma dopo cinque minuti è di nuovo lì a chiederci se è successo qualcosa.

Viene fuori un’infermiera, chiede se c’è qualcuno per la numero 4.  Io mi alzo, penso qualunque cosa, non so come dire cosa a chi, la seguo dietro la porta: un corridoio, a destra una camera lunga e stretta con uno, due, tre, sei letti uno dietro l’altro; più in fondo la camera con la luce sopra verde o rossa, la sala operatoria, di fronte uno sgabuzzino dove fanno ecografia, elettrocardiogramma e prelievo e dove la numero 4 è voltata di spalle in questo momento. L’infermiera mi chiede di verificare se è per lei che sono lì, poi mi porta nella stanza del dottore, che è anche dove fanno l’accettazione e mi mettono un foglio davanti.

La numero 4, che non possono nominare per ragioni di legge sull’anonimato, non si ricorda il suo indirizzo a Roma, cioè quello di Adriana che Silvia ci ha dato due mesi prima. Ma è lì che loro devono inviare eventuale documentazione se non vogliamo che venga inviata alla residenza. Quindi, insomma, scrivere quell’indirizzo, è fondamentale.

Compilo il foglio e torno fuori. Gli accompagnatori sperano che porti notizie per loro: “sua figlia ha fatto” – dico alla madre –  “e sta dormendo nella camera”.

“E’ coperta?” mi chiede.

“si, fin qua, non prenderà freddo”

Anche un’altra stava dormendo, mentre due erano sedute erano sedute sui letti e parlavano, “sua moglie credo sia in sala operatoria adesso”, dico all’uomo, che comincia a piangere, e la prossima è la mia amica.

Per evitare di fissarmi sulla tapparella verde bloccata a metà altezza, o sugli infissi arrugginiti, o sulla macchia di muffa che sale dall’angolo, o sui pezzi di pavimento rotto, tiro fuori un libro e leggo alla luce intermittente del neon.

Dopo qualche ora la figlia della signora riesce a venire dietro al vetro e ci dice a gesti che stanno tutte bene. L’ultima è uscita dalla sala operatoria, la moglie del signore si è svegliata, la mia amica dorme ancora invece ma si vede che sta bene.

L’uomo si allontana e torna con qualche pezzo di pizza da dividere con noi. La madre a quel punto tira fuori dalla borsa il termos di caffè e i bicchierini. Loro sono arrivate stanotte a Roma, sono della provincia “ in certi casi si sa quando si parte e non si sa quando si torna. Il caffè serve sempre”.

La numero 4 esce dalla porta bianca alle cinque.  Cammina, sta bene, ci resta male quando arriviamo fuori ed è così nuvolo da sembrare notte.

“Adesso che torniamo da Silvia cucino. Vi preparo io la cena stasera. Passiamo dal fruttivendolo vicino a casa sua, prendiamo le cime e…” e ho fatto appena in tempo a tirare giù la coperta perché ci si infilasse sotto e si addormentasse, con gli occhi lucidi per la febbre.

A letto ci rimane due giorni, la febbre passa, gli occhi lucidi no.

Il terzo giorno si alza, si fa la doccia, si veste ed esce. C’è il sole fuori.

Un sole così forte che brucia gli occhi e finalmente Anna comincia a piangere.

Ha voglia di camminare nel sole con le spalle dritte e la faccia alta. Camminare, e basta. Mettere un passo dietro l’altro e seguire i suoi piedi, che pare abbiano voglia di un caffè a campo dei fiori.

Anna ha voglia di sole. Di quel sole che ti scalda la faccia e che ti entra nello stomaco. Di quel sole che fa crescere le mimose tonde e gialle.

Auguri.

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Questa voce è stata pubblicata il 12 marzo 2014 da in 8 marzo, aborto, appuntamenti, conosciamoci, donne, generi, informazione, laboratorio con tag , .

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